Congo, fragile tregua nella guerra delle terre rare

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Dopo aver conquistato Goma, il movimento ribelle M23 ha annunciato un cessate il fuoco. La guerra civile, che in 25 anni ha causato 5 milioni di morti, nasconde una contesa per le risorse minerarie del Congo, a cui partecipano anche potenze straniere, dalla Cina agli Stati Uniti, passando per Russia, Turchia ed Europa

Matteo GiustiGiornalista

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5 febbraio 2025

Fragile tregua in Congo: martedì 4 febbraio, i ribelli del movimento M23 hanno annunciato un cessate il fuoco dopo aver preso il controllo di Goma, la capitale della regione del Kivu del Nord, mentre questo fine settimana è previsto un incontro tra il presidente congolese Felix Tshisekedi e l’omologo ruandese Paul Kagame, che sostiene la milizia ribelle. Secondo le Nazioni Unite, almeno novecento persone sono rimaste uccise e quasi tremila ferite negli scontri delle ultime settimane. Sono gli ultimi sviluppi di una guerra civile ormai endemica che negli ultimi venticinque anni ha lasciato cinque milioni di morti e sette di sfollati, vittime di una sanguinosa e decennale contesa sulle enormi risorse minerarie del Paese.

Marie-Jeanne Balagizi: “I morti civili in Congo non si contano più”

Congo, le origini della guerra civile

La maledizione di questa sconfinata nazione, più grande dell’Europa occidentale, sta proprio nelle ricchezze del sottosuolo: qui si trovano i maggiori giacimenti mondiali di cobalto, rame, litio, coltan, terre rare fondamentali per la transizione energetica, senza dimenticare diamanti, oro e rubini. La maggior concentrazione di queste materie prime si trova in particolare nell’Est del Paese, nelle province del Kivu del Nord e del Sud, lontane oltre duemila chilometri dalla mastodontica capitale Kinshasa. È qui che, dopo il genocidio del Ruanda del 1994, migliaia di hutu hanno trovato rifugio e dato vita a gruppi armati con l’obiettivo di rovesciare il nuovo governo ruandese che, con il presidente Paul Kagame, era tornato sotto il controllo dei tutsi. E da qui è partita l’avanzata che nel 1997 ha portato alla caduta del trentennale regime di Mobutu Sese Seko e all’insediamento di un politico filo-ruandese, Laurent-Désiré Kabila, alla presidenza del Congo. 

Dietro le motivazioni etniche e di sicurezza con cui il Ruanda giustifica il coinvolgimento in Congo c’è la volontà di controllarne le risorse

Presto, però, i rapporti tra i due paesi si sono nuovamente deteriorati, arrivando ancora una volta allo scontro. Le motivazioni etniche e di sicurezza avanzate dal presidente ruandese Paul Kagame per giustificare la presenza nell’Est del Congo, infatti, nascondevano in realtà la volontà di controllare le risorse di quei territori. Così, nel corso dei primi anni Duemila, Kigali ha organizzato una nuova milizia che potesse agire in Kivu approfittando della totale mancanza di controllo da parte del governo centrale di Kinshasa, il Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo, movimento tutsi nato nel 2006. Dopo tre anni di scontri, nel marzo del 2009 è stata firmata la pace, che prevedeva l’ingresso dei miliziani nell’esercito regolare congolese. Una pace fragile: l’anno seguente, alcuni ex membri del gruppo ribelle hanno infatti dato vita a una nuova milizia, il Movimento 23 Marzo (M23), il cui nome fa riferimento proprio alla data di firma dell’accordo del 2009 di cui denunciavano il mancato rispetto da parte del governo di Kinshasa. 

M23, la milizia ribelle che infiamma il Congo orientale

Ancora una volta finanziati ed armati dal vicino Ruanda, i guerriglieri del M23 hanno così iniziato a conquistare cittadine e villaggi nell’Est del Congo fino alla caduta della città di Goma nel 2012. Quell’evento, che abbiamo visto replicato nelle ultime settimane, ha messo a nudo la totale mancanza di controllo da parte del governo e l’inadeguatezza delle forze armate, che spesso nemmeno combattevano unendosi ai saccheggiatori o vendendo le armi al nemico. La città sarà liberata qualche giorno dopo grazie a un intervento internazionale. Dopo alcuni anni di relativa calma, all’inizio del 2022 il movimento M23 guidato dal generale Sultani Makenga è tornato ad attaccare le postazioni dell’esercito regolare congolese e arruolare miliziani fra la popolazione tutsi. Il Ruanda si è inserito ancora una volta nella contesa fornendo armi ai redivivi ribelli, che hanno iniziato ad avanzare in Kivu nonostante la presenza di un contingente della Comunità per lo sviluppo dell’Africa australe (Sadc) a guida sudafricana e della missione Onu Monusco. Lo scorso giugno, i caschi blu hanno iniziato a ritirarsi dalla regione su richiesta del governo di Kinshasa, segnando la fine di oltre vent’anni di presenza da molti giudicata fallimentare.

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Goma di nuovo in mano ai ribelli

Secondo le Nazioni Unite, i combattimenti delle ultime settimane hanno lasciato almeno 900 morti e quasi 3000 feriti

L’ultima svolta nel conflitto è arrivata a inizio di quest’anno, quando Goma è caduta ancora una volta nelle mani dei ribelli, forti di 10mila uomini e affiancati da 4mila soldati regolari ruandesi. Il presidente Paul Kagame ha sempre negato un coinvolgimento diretto del suo esercito, dimostrato invece dalla documentazione raccolta dalle Nazioni Unite. Nei primi giorni di febbraio, mentre Corneille Nangaa, uno dei più importanti i leader del M23, minacciava di marciare verso la capitale Kinshasa per rovesciare il governo, il nuovo segretario di Stato americano Marco Rubio chiamava personalmente il presidente ruandese per chiedere la fine della violenza e otteneva la promessa di un breve cessate il fuoco, che avrebbe permesso l’apertura di un corridoio umanitario per il mezzo milione di persone che avevano dovuto abbandonare le proprie abitazioni a causa dei combattimenti. 

Cina, Stati Uniti, Russia, Europa: le mani sul Congo

L’intervento statunitense mostra come il quello che dilania il cuore dell’Africa non sia soltanto un conflitto regionale tra Congo, Ruanda e Burundi (che pure è intervenuto schierando il proprio esercito a difesa di Bukavu, capitale del Kivu del Sud, prima cha cadesse nella mani dei ribelli). La lotta per il controllo dei minerali critici per la transizione energetica ha preso la dimensione di una contesa tra potenze globali, dalla Cina agli Stati Uniti, passando per l’Europa, la Russia e la Turchia. A inizio dello scorso anno, la Repubblica democratica del Congo ha firmato con due aziende statali cinesi un accordo ventennale per lo sfruttamento delle risorse minerarie, che legherà il Paese africano a Pechino e porterà nelle casse statali soltanto 7 miliardi di dollari, a fronte di un potenziale calcolato cento volte superiore. 

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Paul Kagame, il dittatore ruandese che sostiene i ribelli in Congo perseguita l’opposizione in casa, è invece il campione degli occidentali, soprattutto Stati Uniti, Francia e Belgio. Non è infatti casuale che nei giorni in cui Goma veniva conquistata, nella lontana Kinshasa la folla veniva aizzata ad assaltare le ambasciate proprio di queste tre nazioni. Il Ruanda è considerato uno stato affidabile e sicuro, pronto a prestare i propri soldati agli interessi delle potenze occidentali. Un esempio: quando, nella primavera del 2021, i giacimenti di gas liquefatto nel nord del Mozambico controllati dalla francese Total sono finiti sotto attacco degli estremisti islamici affiliati all’Isis, il presidente Macron ha chiesto a Kagame di inviare un contingente di mille uomini a difenderli.

Non solo: sono gli statunitensi ad addestrare le forze armate ruandesi, rifornirle dei più moderni armamenti e eseguire operazioni militari congiunte. Quello di Washington con l’Africa è un rapporto ondivago. Durante lo scorso mandato, Joe Biden aveva tentato di rafforzare i legami con il Continente con l’ultimo summit Usa-Africa, dove aveva proposto di inserire l’Unione africana all’interno del G20, ma era parso un tentativo goffo e tardivo. Il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump ha poi alimentato le ipotesi di un totale disimpegno in Africa, che però sembra improbabile vista la crescente influenza di Pechino, che con la trappola del debito ha già preso il controllo delle più importanti infrastrutture di tutto il Continente. 

Nella grande partita dell’Africa centrale, ognuno fa il proprio gioco. A perderci è la popolazione civile, che continua a morire o vivere nella povertà più estrema in una delle terre più ricche al mondo

Se, come sembra, nei prossimi giorni i presidenti di Congo e Ruanda si siederanno a un tavolo per cercare un accordo di pace, significa allora che la Cina e la nuova amministrazione Trump hanno deciso di parlarsi. Nella grande partita geopolitica dell’Africa centrale, ognuno fa il proprio gioco: in palio ci sono le materie prime, i vantaggi strategici dati dalla collocazione geografica e i voti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. A perdere, invece, è la popolazione civile, che continua a morire o vivere nella povertà più estrema in una delle terre più ricche al mondo.

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