Il caso Al-Masri e la cooperazione italo-libica nel controllo dell’immigrazione illegale – Analisi Difesa

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Molto tempo è passato da quando l’Italia ha iniziato a collaborare con la Libia nel controllo dei flussi immigratori irregolari. Un breve excursus storico, per quanto si tratti di antefatti ben noti, è utile a inserire nel giusto contesto la vicenda del generale Osama al- Masri e la connessa questione della pretesa giurisdizione della Corte Penale Internazionale (CPI).

Le relazioni italo-libiche dopo la fine del periodo coloniale non si sono mai interrotte, anche se hanno attraversato periodi turbolenti. Nel 1970 Gheddafi, appena assurto al potere, dispose l’espulsione dell’intera comunità italiana confiscandone i beni. Successivamente i nostri rapporti si allentarono in relazione al confronto tra Tripoli e Stati Uniti per la Sirte ed alle sanzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU al regime di Gheddafi per l’attentato di Lockerbie.

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All’inizio degli anni 2000 la Libia assunse l’impegno di abbandonare la sua politica terroristica e di smantellare i propri arsenali di armi chimiche.

La Comunità internazionale riprese allora i contatti con Tripoli, ed anche l’Unione europea avviò il dialogo che divenne più serrato quando Romano Prodi assunse la presidenza della Commissione cercando di ottenere da Gheddafi l’avvio di un percorso di adesione ai principi del diritto internazionale.

Il leader libico nel 2004 informò ad esempio il presidente Prodi della sua decisione di stabilire un corridoio umanitario per l’espatrio dei profughi del Darfur.

Riannodati in quegli anni i contatti con Tripoli, il nostro Paese ha cercato di stabilire, al di là delle tradizionali forme di cooperazione economico-sociale, intese sul controllo dei flussi migratori irregolari che avevano cominciato ad assumere forma stabile sino a divenire un’arma di pressione verso il nostro Paese.

In questo contesto si ineriscono le visite a Tripoli del presidente Berlusconi nel 2003 e la prima stipula di un accordo di cessione di mezzi per il controllo dei flussi migratori. Certo è che le partenze dalla Libia dei migranti diminuirono dopo che nel 2007 si firmò il Protocollo di Tripoli dedicato appunto a fronteggiare il fenomeno dei traffici illegali di migranti, con l’assistenza della nostra Guardia di finanza.

La collaborazione assunse carattere strutturato con il Trattato di Bengasi del 30 agosto 2008 di amicizia con cui i due paesi ponevano fine ai contenziosi causati dalla colonizzazione italiana. In particolare, l’art. 19 del Trattato era dedicato alla cooperazione per il contrasto dei traffici di migranti, richiamando il citato Protocollo del 2007, al fine di avviare operazioni di sorveglianza marittima congiunta e di creare un sistema satellitare di controllo delle frontiere terrestri meridionali libiche.

Un ulteriore accordo contro l’immigrazione fu poi definito nel 2009 mediante un Protocollo addizionale.

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Il modus operandi italo-libico prevedeva, sulla base di tali intese, d’intercettare in alto mare le imbarcazioni trasportanti migranti, mettere in sicurezza sulle navi italiane le persone soccorse e trasportarle nei porti di partenza. A termine del 2009, per effetto delle misure di interdizione, gli arrivi in Italia si ridussero moltissimo;  la nuova policy dovette  tuttavia cessare quando nel 2011 la CEDU emise una sentenza con cui condannò l’Italia per aver messo in atto forme di  respingimenti collettivi in violazione della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati.

Il crollo del regime di Gheddafi incentivò com’è noto le partenze finché nel 2013, dopo la sciagura di Lampedusa, il nostro Paese lanciò -Enrico Letta  presidente del Consiglio-  l’Operazione “Mare Nostrum” di natura umanitaria decidendo di trasportare in Italia tutti i migranti soccorsi. Nel solo 2014 furono accolte in Italia 166.000 persone ed il trend continuò, con numeri più è meno analoghi, per altri quattro anni.

Il Governo Monti riallacciò nel 2012 i rapporti con Tripoli che si rinsaldarono ad opera dei Governi successivi intenzionati a favorire il processo di pace indicato dalle NU senza trascurare il dossier migratorio.

Nel 2017 il Governo Gentiloni – mentre era Ministro dell’Interno Marco Minniti – iniziò una nuova collaborazione articolata  in un Memorandum d’intesa (applicativo del Trattato di Bengasi) che prevedeva la nostra assistenza in vari settori, tra i quali la creazione di “campi di accoglienza temporanei in Libia, sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico, in attesa del rimpatrio o del rientro volontario nei paesi di origine”.

L’Ue, per parte sua, si impegnò a finanziare il progetto di addestramento della Guardia costiera libica che portò nel 2018 ad una conferenza sul soccorso in mare (SAR) organizzata a Roma nel 2018 dalla nostra Guardia costiera assieme agli omologhi libici. L’Unione lanciò anche nel 2015 l’Operazione EunavForMed “Sophia” che tra i suoi compiti, oltre ad impedire il contrabbando di armi e petrolio con la Libia, aveva anche quello di combattere il traffico di migranti.

Il “Memorandum Gentiloni”, alla scadenza triennale, è stato poi rinnovato per due volte dai Governi Conte e Draghi, previa assunzione di impegni politici da parte libica di rispettare i diritti umani dei migranti.

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Il presidente Draghi , recatosi in visita a Tripoli nel 2022,  circa l’immigrazione, manifestò piena adesione al nuovo corso libico durante la conferenza stampa con il primo ministro libico Abdul Hamid Dabaiba dichiarando: “ noi esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa nei salvataggi e, nello stesso tempo, aiutiamo e assistiamo la Libia”.

Nel frattempo il nostro Ministero degli esteri, in un decreto del 2019 aveva tuttavia classificato la Libia come “Paese non sicuro” ai fini della concessione di protezione internazionale ai migranti, tenendo conto delle valutazioni di agenzie ONU ed Ong su vari casi di violazioni dei diritti umani.

In sostanza, può dirsi, circa la nostra politica ultradecennale di cooperazione  migratoria, come la linea italiana sia sempre stata improntata a pragmatica collaborazione bilaterale, sia pur in presenza di continue critiche da parte di vari settori della nostra società: questo,  nel presupposto che la situazione dell’organizzazione statuale della Libia fosse caratterizzata da peculiarità storiche -in parte imputabili al conflitto tra fazioni- non assimilabili a quelle di altri Paesi occidentali.

Questo non ha impedito all’Italia – unico tra tutti i Paesi della Ue – di impegnarsi nella lotta ai trafficanti di migranti esercitando giurisdizione in tutti i casi in cui i fatti ricadevano sotto la propria legislazione penale.

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Se questo è vero allora va visto nella sua giusta luce politica la vicenda dell’Ordine della Pre-Trial Chamber  della Corte Penale Internazionale (CPI) non eseguito per apparenti ragioni formali.

Il provvedimento della CPI, secondo quanto emerge dall’opinione dissidente della  giudice  Flores Liera, può essere ritenuto frutto di un’interpretazione estensiva dell’autorizzazione data dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con la Risoluzione 1970 (2011) a deferire alla stessa Corte la situazione di violenza contro la popolazione civile esistente al 15 febbraio 2011 caratterizzata da crimini contro l’umanità e crimini di guerra in violazione dello Statuto della CPI.

A parere della giudice Flores Liera il provvedimento contro il generale al-Masri sarebbe quindi viziato da incompetenza perché adottato al di fuori del quadro, circoscritto dal punto di vista temporale e fattuale, della situazione violenta che ha portato alla destituzione di Gheddafi.

In aggiunta andrebbe anche valutata la correttezza della procedura di notifica dell’ordine di arresto di al-Masri.

A quel che sembra la Cancelleria della Corte – sulla base delle informazioni ricevute dall’Ufficio del Procuratore – avrebbe scelto di notificare il provvedimento alle sole autorità italiane, invece di seguire la via imparziale del coinvolgimento di tutti i Paesi in cui, secondo quanto risultava, l’indagato avrebbe soggiornato prima di rientrare in Libia.

Se politica è stata la risposta italiana al provvedimento della CPI, non va infine esclusa – stante le criticità giuridiche dal provvedimento indicate dalla giudice Flores Liera – un’inconscia finalità politica insita nell’esercizio della giurisdizione da parte della CPI: dimostrare che il nostro Paese, messo alle strette da un provvedimento che implicitamente contesta  la sua politica estera, reagisce in modo non conforme alle regole dello Stato di diritto costituenti uno dei principi fondanti dell’Unione.

Foto: Agenzia Nova, MOAS e Guardia Costiera Libica

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