Donald Trump con le sue prese di posizione in favore del trasferimento all’estero dei palestinesi di Gaza torna a dare enfasi ad antichi slogan falsi, perché nello Stato israeliano nato nel 1948 e poi nei territori da questo occupati con la guerra del 1967 è sempre esistita una ben radicata popolazione araba
«Una terra senza popolo per un popolo senza terra»: Donald Trump con le sue prese di posizione in favore del trasferimento all’estero dei palestinesi di Gaza torna a dare tragica e controversa enfasi a uno degli slogan più falsi e perniciosi diffuso sin dalle origini del movimento sionista e persino tra i suoi sostenitori nel mondo cristiano. Falso, per il fatto molto semplice che nelle regioni destinate a fare parte dello Stato israeliano nato nel 1948 e poi dei territori da questo occupati con la guerra del 1967 è sempre esistita una ben radicata popolazione araba (che agli inizi del Novecento era molto più numerosa della piccola minoranza ebraica, peraltro allora in maggioranza religiosa e antisionista).
E pernicioso, foriero di tragici sviluppi, dato che, come ripetono di continuo i più autorevoli storici, anche ebrei, del sionismo e di Isreale: tranne poche eccezioni alla prova dei fatti marginali e minoritarie, nel sottofondo del pensiero e delle azioni dei lader del movimento nazionalista ebraico c’è sempre stata la tendenza a sminuire o addirittura ignorare la presenza araba in quelle stesse regioni che rappresentano il cuore della «rinascita nella terra dei padri». «Da Theodor Herzl a David Ben Gurion, e poi soprattutto tra i ranghi della destra nazionalista, la speranza più o meno palese è stata quella di convincere con le buone o con le cattive gli arabi a trasferirsi altrove. Negli ultimi anni il movimento dei coloni ebrei in Cisgiordania è rappresentato in parlamento dai partiti ultranazionalisti messianici che fanno parte del governo Netanyahu e ormai dichiarano apertamente ciò che prima era solo sussurrato nei corridoi del potere: no alla partizione della terra in cambio della pace e invece sì al trasferimento forzato della popolazione palestinese in altri Paesi arabi», sostiene preoccupato lo storico e commentatore Tom Segev.
Negli ultimi giorni lo storico conservatore Benny Morris sul quotidiano Haaretz è andato ancora più in là. A suo dire, il progetto del «transfer» all’estero dei palestinesi di Gaza si configura come l’anticipazione di ciò che potrebbe presto allargarsi ai palestinesi della Cisgiordania e in verità rivela una «mentalità genocidiaria». S’inizia con l’espulsione, ma poi, se ci fossero resistenze, il ricorso alla forza omicida a facilitare la pulizia etnica potrebbe prevalere. «Non dimentichiamo che prima della Soluzione Finale, che proponeva lo sterminio del popolo ebraico, i nazisti avevano progettato di deportare gli ebrei in altri Stati al di fuori del Terzo Reich», mette in allarme Morris: un monito che azzarda un ardito e controverso parallelo tra gli eventi della Shoah e l’eccidio dei palestinesi a Gaza negli ultimi 15 mesi.
Non a caso la stragrande maggioranza di esperti e commentatori americani e in larga parte del mondo giudica folli, irrealizzabili, contrarie al diritto internazionale e bolla adesso come provocatorie e gravissime le affermazioni di Trump. Sono posizioni che vanno ben oltre le sue mosse durante il precedente mandato di trasferire l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme o di riconoscere la sovranità israeliana sulle alture del Golan occupate alla Siria durante il conflitto del 1967. Le conseguenze appaiono evidenti e sono destinate a porre definitivamente la pietra tombale sulla già profonda fossa scavata sui resti degli accordi di Oslo, che nel 1993 miravano al compromesso territoriale e alla partizione della terra in due Stati in cambio della pace. Va sottolineato che nel fallimento di Oslo non ci sono innocenti. Il terrorismo di Hamas e le stragi dei kamikaze, l’islamizzazione del radicalismo mediorientale, ma anche l’assassinio per mano di un ebreo estremista del premier laburista Ytzhak Rabin e la crescita delle colonie radicali in quelle stesse terre destinate a fare parte dello Stato palestinese hanno distrutto le premesse del dialogo. Pure, oggi il presidente Usa non fa che gettare benzina sul fuoco. In primo luogo, Trump ridà forza al vecchio slogan del fronte arabo oltranzista, che falsamente presentava Israele come prodotto del «colonialismo imperialista americano». Ne consegue il ricompattarsi del già diviso e litigioso fronte arabo in difesa dei palestinesi, una causa che gli «accordi di Abramo», le frizioni con l’Iran e gli egoismi nazionali, i singoli interessi economici a fare affari con Washington e la stessa Israele, avevano praticamente cancellato per la felicità degli israeliani. Adesso Egitto, Giordania, nuovo governo siriano, Arabia Saudita, Paesi del Golfo, Turchia, Iraq rilanciano compatti lo slogan dei due Stati, a prescindere dalla sua concreta fattibilità o meno.
Per comprendere il muro di opposizioni alle proposte del presidente Usa è sufficiente ricordare in breve le tappe della storia della «striscia della disperazione» e il suo rapporto con i Paesi limitrofi. Agli inizi del Novecento è una regione ricca di aranceti, le fonti d’acqua fresca abbondano con i fontanili tra le dune, i commercianti fanno fortuna con le carovane che da ben prima i cinque secoli di dominazione ottomana da qui transitano sulle vie di comunicazione per Il Cairo attraverso il Sinai. Tutto è stravolto con la guerra del 1948 e la nascita di Israele. In pochi mesi la popolazione di Gaza triplica sino a oltre 200.000 abitanti, i campi dei profughi scacciati o fuggiti dalle loro case adesso occupate dalle forze ebraiche crescono tra le piantagioni. L’Egitto include Gaza nell’amministrazione del Sinai. La situazione cambia brevemente con la guerra del 1956, dove Gerusalemme è alleata a Londra e Parigi contro il regime di Nasser per il controllo del Canale di Suez. Ma poi sono gli americani a insistere che Israele si ritiri sulle linee di partenza abbandonando anche Gaza.
Lo stesso non avviene dopo il conflitto del giugno 1967. La Guerra dei Sei Giorni stravolge le mappe del del Medio Oriente: Israele più che raddoppia i suoi territori, occupa Sinai, Gaza, Gerusalemme est, Cisgiordania e Golan. Con gli accordi di Camp David nel 1979, l’Egitto si riprende il Sinai. Ma non pretende più il controllo di Gaza. Le ragioni? Ovvio: per il governo del Cairo la Striscia è solo motivo di grattacapi, ci sono povertà diffusa e radicalizzazione, l’irredentismo dell’Olp serve come slogan contro Iraele, meglio non averlo in casa. E intanto cresce il radicalismo islamico. Il 6 ottobre 1981 i Fratelli Musulmani, che sono la «casa madre» dell’Hamas odierna, assassinano il presidente Anwar Sadat, accusato di avere «tradito» la causa palestinese per avere in cambio il Sinai. Da allora la sua morte rappresenta un pesante monito anche per l’attuale presidente Abdel Fattah Al-Sissi, che vede in Hamas un pericolo immanente, specie dopo che dal 2007 il movimento islamico è padrone a Gaza. Nel 2013 ha defenestrato nel sangue il governo islamico del presidente eletto Mohamed Morsi. Noi basteranno i dollari promessi da Trump per fargli cambiare idea, come ha già detto apertamente.
Lo stesso vale per la Giordania, dove il problema è ancora più acuto. Lo rivela il dato tabù relativo alla percentuale di giordani di origine palestinese. Secondo le cifre Onu, i profughi sono circa 3 milioni su 11 milioni di abitanti, ma nella realtà si parla di circa il 65-70 per cento di giordani di origine palestinese. Nel 1971 Yasser Arafat cercò di defenestrare l’allora re Hussein, che uccise migliaia di combattenti dell’Olp per salvare la monarchia hashemita. Oggi suo figlio, re Abdallah, a sua volta percepisce la proposta di Trump come una minaccia esistenziale e farà di tutto per affossarla.
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