Andate al ristorante e ordinate un antipasto a base di polpo, un piatto di pasta, un astice invitante e un sorbetto finale. Dopo aver degustato il vostro pranzo arriva il conto e, sorpresa, ogni portata ha lo stesso prezzo, quello dell’astice, il più caro. Perfino il sorbetto vi costa così tanto. Assurdo vero? Eppure è quello che succede a chi compra elettricità. Il «menù» in questo caso è composto da energia che arriva dagli impianti idroelettrici, da quelli eolici, dai pannelli fotovoltaici e dalle centrali termoelettriche a gas. E come nell’immaginario ristorante, il prezzo finale a carico del cliente è basato sul prodotto più caro: cioè, i kilowatt generati dalle centrali a gas. Un meccanismo perverso che danneggia pesantemente l’economia italiana. Siamo infatti un Paese che dipende ancora troppo dal gas, ha meno produzione da rinnovabili di altre nazioni e non possiede il nucleare: così più o meno il 40 per cento della produzione di elettricità in Italia arriva dalle centrali che bruciano metano, le cui quotazioni viaggiano a livelli doppi rispetto al 2019.
E poiché il prezzo finale dell’elettricità è determinato dai produttori più costosi, il risultato è devastante: secondo i dati del Centro studi Confindustria, sulla borsa elettrica italiana il Pun (prezzo unico nazionale, cioè il costo di riferimento all’ingrosso dell’elettricità) a gennaio è stato mediamente di 139 euro al megawattora contro i 111 euro della Spagna, i 108 euro della Germania, i 98 euro della Francia e i 61 euro degli Stati Uniti. È evidente che con questa spesa l’industria italiana è spiazzata e in particolare le imprese più energivore sono costrette a ridurre la produzione o a chiudere i battenti. E se le aziende producono di meno anche il Prodotto interno lordo cresce più lentamente e così per il governo è più complicato ridurre il rapporto deficit-Pil. In altre parole, il caro-energia è il problema numero uno per il Paese e se non si risolve, le sue conseguenze vanno ben oltre il destino delle singole imprese.
Ma perché se in Italia circa il 60 per cento dell’elettricità viene prodotta dalle ormai economiche fonti rinnovabili dobbiamo continuare a pagarla come quella delle centrali termoelettriche? In che modo si forma in concreto il prezzo dell’elettricità? Come negli altri Paesi europei, viene fissato con un meccanismo simile a una Borsa che si chiama Gestore dei mercati energetici. Ogni giorno tutti i produttori di energia offrono l’elettricità che sono in grado di fornire per il giorno successivo, indicando un certo prezzo. Dall’altra parte di sono gli acquirenti, cioè le società che vendono la corrente ai clienti finali. La precedenza è data ai produttori più economici: parchi eolici, fotovoltaici, impianti idroelettrici. Il gestore di pale eoliche potrebbe in teoria offrire un prezzo molto basso ma baserà la sua offerta secondo l’andamento del mercato, tenendosi leggermente sotto i massimi. Per ultime vengono accettate le offerte più costose, quelle delle centrali a gas, che naturalmente risentono delle quotazioni della materia prima e non possono stare bassi altrimenti vanno in perdita. E come succede con i titoli in Borsa, se gli acquirenti accettano anche l’offerta più cara, il prezzo finale è quello. E quasi quotidianamente in Italia accade che occorre utilizzare elettricità generata con il gas.
Nel resto d’Europa invece è più raro che vengano chiamate a dare il loro contributo le centrali a metano, visto che c’è tanta produzione nucleare o rinnovabile. E i prezzi così sono più bassi. Non è finita, perché il giorno dopo in Italia Terna, la società che gestisce la rete ad alta tensione, deve procedere a una serie di aggiustamenti per far coincidere perfettamente domanda e offerta di elettricità, chiedendo ai soggetti più flessibili, cioè quelli con le centrali a gas, di aumentare o tagliare la produzione. Una scomodità retribuita con soldi a carico delle nostre bollette. «È vero, la formazione del prezzo dell’elettricità è un sistema da riformare che però ha una sua ragion d’essere: ovvero assicurarsi comunque la disponibilità di un bene» spiega Alessandro Marangoni, ceo della società di consulenza Althesys, specializzata nei settori ambiente, energia, infrastrutture, utilities. «La ragione è che i mercati sono nati quando il gas costava poco mentre le rinnovabili erano più care. Le differenze tra i prezzi delle diverse fonti non erano così macroscopici come adesso».
A peggiorare il quadro per i consumatori italiani ci sono vari oneri: alcuni discutibili, come quelli per la dismissione delle centrali nucleari o i passati incentivi delle rinnovabili, che magari, vista la situazione di emergenza, potrebbero essere spalmati sulla fiscalità generale. Poi ci sono i certificati Ets, quote di emissioni di CO2 che rappresentano un ulteriore aggravio economico per le imprese più energivore. Come uscirne? Marangoni ricorda le soluzioni a cui si sta pensando in Italia e in Europa: dall’imposizione di un tetto al prezzo delle rinnovabili, in sostanza richiedendo indietro parte dei maggiori margini ottenuti grazie alle elevate quotazioni, alla creazione di una sorta di mercato riservato ai produttori green: «Con un sistema di aste» chiarisce il numero uno di Althesys «io, Stato, offro a te, gestore di rinnovabili, un prezzo più basso di quello di mercato ma che comunque ti fa guadagnare e ti copre dal rischio di un calo delle quotazioni. Un sistema su base volontaria che dovrebbe partire in forma transitoria in Italia in attesa del via libera di Bruxelles». In Europa si ragiona anche sulla possibilità di lasciare il mercato spot dell’elettricità solo ai produttori termoelettrici e utilizzare il meccanismo delle aste con le rinnovabili, generando un prezzo medio più basso.
Nel frattempo, Giorgio Tomassetti, ceo della filiale italiana di Octopus, società inglese che è diventata il maggior fornitore di elettricità del Regno Unito, sostiene che in Italia si potrebbero sfruttare di più le rinnovabili per abbassare i costi: «Se si investe di più nelle tecnologie appropriate, si possono usare meglio le fonti green. Si possono anche ridurre i consumi in certe aree per rispondere a picchi di domanda. Così si impiegherebbero meno le centrali termoelettriche». Ma per le imprese che consumano più energia c’è anche un’altra strada, quella che tecnicamente si chiama PPA, Power Purchase Agreement, cioè l’acquisto dell’elettricità direttamente da un produttore a un prezzo fisso. «Sono accordi abbastanza comuni negli Stati Uniti e nel Regno Unito, meno in Italia» dice Marangoni. «Di solito vengono sottoscritti dai gestori di grandi impianti rinnovabili, che così garantiscono alle banche la solidità dell’investimento». Per questo, sottolinea il consulente, sviluppare ulteriormente gli impianti rinnovabili potrebbe contribuire a ridurre le bollette e migliorare la competitività del sistema.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link