EMANUELA LOI ORIGINARIA DI SESTU, LA PRIMA POLIZIOTTA A MORIRE IN UNA STRAGE DI MAFIA

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Emanuela Loi è stata la prima poliziotta a morire in una strage di mafia. Aveva 24 anni ed era arrivata a Palermo dalla Sardegna, dopo essersi formata come poliziotta a Trieste. Non amava Palermo e voleva tornare a casa, nella sua amata Sestu, dove ad aspettarla c’erano i suoi genitori, la sorella Claudia e il fratello Marcello. Li chiamava quasi ogni giorno dalla cabina telefonica della caserma, un gettone, una chiamata. Non riuscì più a tornarci nella sua stanza, che da quell’estate del 1992 è rimasta come congelata nel tempo, la mafia la uccise il 19 luglio, in via d’Amelio, mentre proteggeva il giudice Paolo Borsellino. Insieme a lei morirono il giudice Borsellino e gli agenti Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina e Vincenzo Fabio Li Muli.
In occasione della Giornata della Legalità, che ricorre ogni anno il 23 maggio, in memoria della strage di Capaci del 1992, il docufilm «I Ragazzi delle Scorte 3», realizzato dal Dipartimento della pubblica sicurezza con la società 42° parallelo e il contributo della Presidenza del Consiglio dei ministri, che andrà questa sera in onda su Rai 3 alle 23.10, ripercorre la storia di Emanuela Loi insieme alle parole di sua sorella Claudia, del collega e amico fraterno Emanuele Filiberto e della nipote Emanuela, nata tre mesi dopo la strage e oggi poliziotta, come la zia.
«In quel momento ero tutta frastornata, dicevo “ma dov’è mia sorella, dov’è mia sorella”». Parte da qui il ricordo di Claudia Loi che quando ha perso la sorella aveva poco più di vent’anni, come lei. La mente è ferma al momento dell’arrivo davanti al Tribunale di Palermo, poi un applauso lunghissimo e tutte le bare poste una accanto all’altra. «Non riuscivo a immaginare che Emanuela potesse essere lì dentro». Insieme a Claudia, poco tempo prima, Emanuela aveva partecipato al concorso per entrare in Polizia ma la sua prima passione era diventare maestra. «Fui io a chiederle di accompagnarmi quel giorno, lei venne e decise di partecipare. Raggiunse il punteggio più alto ed entrò subito in graduatoria, io invece no». Quel giorno il destino di Emanuela Loi cambiò per sempre.
«La storia di Emanuela Loi mi ha colpito subito perché si tratta di una storia che rischia col tempo di perdere visibilità perché assimilata alla dicitura generica “la strage in cui hanno perso la vita Paolo Borsellino e gli agenti di scorta”. Diventa ancora meno visibile perché il plurale maschile “agenti di scorta” non rivela la sua presenza in quanto donna», spiega Diana Ligorio, showrunner del documentario. «Questa storia comincia su un’isola, la Sardegna, terra natale di Emanuela Loi, e finisce su un’altra isola, la Sicilia, teatro della strage di via D’Amelio. La dimensione dell’isola, dell’isolamento è centrale nella vicenda di Paolo Borsellino ma anche dei suoi agenti di scorta che hanno condiviso con lui i famosi 57 giorni, non lasciandolo mai solo. È una storia di isolamento ma anche di tenacia come dimostra l’atteggiamento non solo del magistrato ma anche della protagonista di questo film. Entrambi in momenti diversi e cruciali della loro vita hanno detto: “Io devo continuare”». Lo ripete l’agente di scorta Emanuele Filiberto che ha vissuto il rapporto con il giudice Borsellino come quello di un figlio al fianco del padre. Ogni giorno e ogni notte. «Ogni volta che ero in servizio e facevo il turno di notte lui era sul balcone a fumare. Fumava sempre, fumava tantissimo. Gli facevo cenno con la testa e lui rientrava».
Per Emanuele Filiberto, Emanuela era una sorella. «Prima alla scuola a Trieste mi aiutava con lo studio poi a Palermo lei era stata assegnato al Commissariato Libertà e si occupava di pattugliare l’abitazione dell’onorevole Sergio Mattarella, oggi nostro Capo di Stato. Quando Emanuela mi disse che voleva entrare nelle Scorte io mi sentii quasi di proteggerla ma era una donna determinata e forte». E quando entrò nella scorta del giudice Borsellino non lo disse alla sua famiglia. «Ci diceva che non scortava persone pericolose, non nominò mai il giudice Borsellino, forse per farci stare tranquilli», racconta la sorella Claudia. «Non sono tornata a Palermo per 26 anni, mi faceva troppo male pensare che mia sorella fosse morta lì, su quella strada. Oggi quando ho voglia di risentirla accanto a me, entro nella sua stanza. Lì, la trovo sempre».

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