La crisi politica in Serbia è seguita alle proteste che continuano da tre mesi, dopo il crollo della tettoia nella stazione dei treni di Novi Sad che, il 1° novembre scorso, ha causato 15 morti. “Un’opera finanziata con fondi cinesi, nel contesto della nuova «via della seta», la «belt and road initiative», ci racconta Massimo Moratti, esperto di diritti umani e corrispondente dalla capitale serba dell’Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa (Obct).
Da allora, quotidianamente, in tutta la Serbia, a mezzogiorno, si sono cominciati a osservare 15 minuti di silenzio. “In seguito a queste morti, i giovani hanno cominciato a scendere per le strade, per chiedere giustizia e per individuare i responsabili del crollo. Inizialmente, il Governo non ha fornito tutti i dati necessari, e questo ha inasprito le proteste. Negli ultimi giorni, le manifestazioni sono decisamente salite di intensità, ma già a dicembre 100 mila persone erano scese in piazza a Belgrado. Dopo lo sciopero generale di venerdì 24 gennaio e il blocco degli incroci della città, lunedì 27 sono seguite alcune gravi violenze da parte di militanti del Sns (il Partito progressista serbo del presidente Aleksandar Vucic) verso i giovani manifestanti, in reazione alle quali hanno fatto seguito le dimissioni del primo ministro e del sindaco di Novi Sad”.
La marcia di venerdì scorso
Nel corso dei mesi, i manifestanti sono passati dalle proteste contro la corruzione e la malagestione negli appalti pubblici a contestare direttamente il sistema sostenuto dai partiti al potere. Le dimissioni del primo ministro Milos Vucevicć non sono bastate, ai dimostranti, per fermare le proteste. “Un’accelerazione è avvenuta lo scorso fine settimana – prosegue Moratti – quando decine di migliaia di persone hanno bloccato, per protesta, i tre ponti principali di Novi Sad, unendosi agli studenti partiti da Belgrado il giorno precedente, e dopo aver percorso a piedi gli 80 chilometri che separano le due città, per chiedere trasparenza sulle responsabilità dello Stato nell’incidente”. Bandiere, cartelli e slogan erano tutti indirizzati alla dilagante corruzione nelle istituzioni serbe.
Vucic, dal canto suo, accusa i manifestanti di lavorare per i servizi segreti stranieri, con l’obiettivo di spodestarlo. Queste proteste sono, tuttavia, più complicate da screditare rispetto a quelle del passato: sono cominciate per un grave lutto e non sono state guidate da partiti, coinvolgendo, sempre più, fasce della popolazione molto varie tra loro, dai contadini ai giudici.
Il movente delle proteste
L’incidente è considerato dai manifestanti emblematico della corruzione diffusa nel Paese durante gli anni al potere del presidente nazionalista Vucic, che è stato primo ministro fra il 2014 e il 2017, e da allora è presidente. I manifestanti accusano il Governo di aver condotto i lavori di ristrutturazione della stazione senza prestare alcuna attenzione alle norme di sicurezza e poi, quando la tettoia è crollata, di essersi rifiutato di assumersi qualsiasi responsabilità. “Gli studenti universitari, che per settimane hanno bloccato i campus in tutto il Paese, sono emersi come i leader del movimento di protesta, raccogliendo via via il consenso della gente comune – precisa Moratti – e questo si colloca al di fuori dei tradizionali schieramenti politici”.
Lo “Stato prigioniero”
“Stato prigioniero” è un termine coniato dalla Banca mondiale attorno all’anno 2000, per descrivere la situazione che alcuni Paesi dell’Asia centrale stavano affrontando, nel processo di transizione post-comunista. È un tipo di corruzione politica sistemica, in cui gli interessi pubblici influenzano in modo significativo i processi decisionali degli appalti, a proprio vantaggio, attraverso la corruzione e i ritorni economici al partito. In questo contesto, il potere politico si infiltra in tutte le istituzioni e viene meno il ruolo di istituzioni indipendenti, come la magistratura.
Per Moratti, quanto sta accadendo sullo sfondo delle proteste non ha risvolti di politica estera. Il legame tra il presidente Vucic quello russo Vladimir Putin, oltre al fatto che la Serbia, in qualche modo, sia schierata con la Russia, e non con l’Europa, non sembra essere oggetto delle proteste, la questione è meramente interna.
Il dragone cinese
“Va sottolineato – incalza l’esperto – che la Serbia riceve prestiti dalla Cina nell’ambito del progetto della nuova «via della seta» per opere infrastrutturali che la Cina realizza con proprie imprese, senza gara d’appalto. Quindi, i cinesi subappaltano a ditte serbe in forma diretta. Questi grandi flussi di soldi senza controllo pubblico hanno alimentano la corruzione a vari livelli. Certo, gli studenti soprattutto invocano giustizia, trasparenza, democrazia. Tutti valori che, quando si fanno accordi con la Cina di Xi Jinping o con la Russia di Putin, non sono mai rispettati!”.
Il gioco delle tre carte
Il presidente Vucic, certamente, “sta giocando su più tavoli. Da un lato, con la Russia, per avere appoggio politico in seno alle Nazioni Unite, dall’altro con la Cina, per gli scambi commerciali e gli investimenti. Per chiudere, con l’Europa, che di gran lunga è il primo finanziatore della Serbia negli ultimi 15 anni. La popolarità dell’Unione europea, però, è in calo: si sta pagando lo scotto di un processo di adesione che va avanti a rilento da quasi vent’anni e che sembra una chimera, il che accresce il malcontento della popolazione serba, che sta perdendo l’illusione di un futuro europeo”.
Vucic, in questi anni, ha cercato di farsi accreditare “come mediatore tra Est ed Ovest”, ma con dei costi alti. L’Europa, rispetto alle proteste, è rimasta silenziosa, probabilmente anche alla luce degli interessi economici nel Paese, non da ultimo il “memorandum per un partenariato sulle materie prime strategiche, soprattutto litio, firmato lo scorso luglio”.
C’è la percezione, in Serbia, che “l’Unione europea abbia l’interesse a chiudere un occhio sulle violazioni dello Stato di diritto e sul progressivo indebolimento delle istituzioni democratiche in Serbia, purché essa fornisca materiali preziosi, come il litio”. Per questo motivo, molti cittadini serbi ritengono che il sistema attuale sia sostenuto dalla Ue e, per questo, puntualizza Moratti, non si vedono sventolare nelle piazze bandiere della Ue, ma solo della Serbia.
Ceneri della guerra del ’91
A Moratti, che ha vissuto a lungo in Paesi dell’ex Jugoslavia, – prima in Bosnia e poi in Serbia -, abbiamo chiesto se intravede tizzoni di odio e di rivalsa ancora vivi sotto le ceneri della guerra del 1991. “C’è ancora un risentimento che si manifesta in modo simile, tra le varie popolazioni che si vedono reciprocamente le une verso le altre come vittime e non come aggressori. Ragione per la quale, rimane ancora da risolvere la questione del Kosovo, che Belgrado considera una sua provincia autonoma, come quella della Vojvodina”. Concludendo, sottolinea come “il partito di Vucic sia nato da una scissione del partito radicale di Vojislav Šešelj, condannato nel 2018 per crimini di guerra contro l’umanità, commessi durante le guerre nell’ex-Jugoslavia”.
Cosa ci possiamo aspettare?
Molti si chiedono se questa situazione possa portare a un cambiamento, nonostante, appunto, Vucic controlli il Paese in modo tale da poter reprimere ogni protesta. “Le dimissioni del premier e del sindaco di Novi Sad somigliano molto all’indicazione di capri espiatori e al tentativo di salvare chi sta al potere. Sono, tuttavia, molto importanti e indicano a che livello sia giunta la crisi: secondo me, un livello molto elevato. Il presidente Vucicć ha ribadito che o si andrà a nuove elezioni, o ci sarà un rimpasto di Governo. A oggi non ci sarebbero le condizioni per un ritorno alle urne: le liste elettorali sono falsate e la libertà della stampa è in pericolo, ma, al contempo, il rimpasto non sarebbe un segnale forte di cambiamento. Per questo, l’opposizione chiede un Governo di transizione, che ponga le basi per libere elezioni. Quello che invece continuano a chiedere gli studenti è un cambio sistemico, per portare maggiore trasparenza e legalità”. Le prossime settimane saranno decisive per capire come si evolveranno le proteste.
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