Un vecchio adagio di Enrico Cuccia, il banchiere per antonomasia, dice che “i voti si pesano, non si contano“. E quindi c’è chi vale di più, chi vale meno. In finanza poi i numeri sono il pane quotidiano, quando ci sono da studiare aggregazioni, integrazioni alla pari oppure fusioni. Ci sono le operazioni ostili, le offerte pubbliche di sottoscrizione, le offerte carta contro carta destinate a cambiare “la foresta pietrificata delle banche“, settore storicamente percepito come refrattario ai cambiamenti e invece uscito radicalmente mutato. Da una serie di riforme, in testa quelle delle banche popolari e del credito cooperativo, da una Vigilanza finita sotto il cappello europeo della Bce, da una serie di operazioni di consolidamento che hanno cambiato lo scenario di mercato, come l’operazione con cui Intesa Sanpaolo ha comprato Ubi.
Ora in pochi mesi siamo di fronte ad una portata di cambiamenti inimmaginabile. La privatizzazione da parte del ministero del Tesoro del 15% di Montepaschi. Che si appresta ad uscire dalla sfera di controllo pubblico per diventare un attore di mercato e per farlo tenta persino la scalata a Mediobanca, l’investimento della stessa Mps nel capitale da parte di Banco Bpm interessata a muoversi come pivot per un eventuale terzo polo bancario, la cordata con le holding dei Del Vecchio e Caltagirone, i soci italiani già ingombranti nell’azionariato di Generali e Mediobanca. L’ipotesi, per ora fantomatica, persino di un ingresso di Cassa Depositi nel Leone di Trieste per difendere l’italianità. E infine la scelta di Unicredit di lanciare un’offerta pubblica di sottoscrizione da 10,1 miliardi proprio su Banco Bpm, una mossa percepita come ostile dal Consiglio di amministrazione del gruppo guidato da Giuseppe Castagna, che ipotizza 6mila esuberi in caso di aggregazione.
La più imprevedibile delle operazioni è quella appena lanciata da Montepaschi sulla banca di Piazzetta Cuccia. Un’offerta pubblica su Mediobanca da 13,3 miliardi, custode a sua volta del 13% di Generali. Nell’operazione giocano un ruolo decisivo proprio Caltagirone e la famiglia Del Vecchio che, nell’insieme, detengono il 27,6% di Mediobanca, il 15% di Mps, il 16,9% di Generali.
Il nuovo gruppo conterebbe su oltre sei milioni di clienti, e ai corsi di Borsa attuali, la sua capitalizzazione supererebbe i 20 miliardi. Mediobanca però la considera “ostile” e l’ha bocciata in Consiglio di amministrazione definendola “fortemente distruttiva di valore”. Dunque, è cominciata la guerra che vede Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca, in una posizione di strenua difesa dell’esistente.
La mossa fa il paio con l’offerta che ha appena lanciato Unicredit su Banco Bpm. Operazione che ha fatto inalberare il governo che invece preferisce un terzo polo bancario attorno al Banco Bpm, a Montepaschi e quindi ora anche a Mediobanca. Per questo è partita la corsa a blindare il controllo di Mps intorno a quell’11,7% ancora detenuto dal Mef. Un terzo polo che potrebbe avere voce in capitolo anche nella sindacazione dei prestiti alle aziende, ruolo che attualmente viene svolto con successo da Banco Bpm. E con la vocazione di avere ricavi da commissioni e di crescere nel Nord Italia magari aggregando banche più piccole o sportelli eccedenti da altre fusioni.
Per Unicredit, invece, le ipotesi sono tante, e colpisce anche l’ultima sortita: l’acquisizione fino al 4% della stessa Generali, una mossa probabilmente utile per fungere da ago della bilancia tra Mediobanca, i fondi istituzionali presenti nel capitale e le due grandi famiglie imprenditoriali italiane Del Vecchio e Caltagirone.
Se sulla partita della banca tedesca Commerzbank, nel mirino dell’istituto di piazza Gae Aulenti nonostante i veti di Berlino, i tempi da prendere in considerazione potrebbero arrivare alla fine dell’anno, sul versante Banco Bpm, qualche indiscrezione emerge. Per il ceo di Unicredit, Andrea Orcel, il focus primario è su Piazza Meda, mentre l’investimento in Generali è “puramente finanziario”. Per chiudere la partita Orcel potrebbe anche mettere sul tavolo negoziale il risparmio gestito di Anima, la sgr sulla quale l’istituto guidato da Giuseppe Castagna ha lanciato un’opa del valore di 1,6 miliardi per acquistare il 77% del capitale che ancora non possiede.
D’altronde Anima esiste perché tiene assieme una pluralità di azionisti. La sgr tra i soci vanta Poste (11,95%), Banco Bpm (22,38%) e il gruppo Caltagirone (che potrebbe essere ben sopra il 5%) ma ha anche accordi commerciali con il Monte dei Paschi e con lo stesso Banco, per cui gestisce 48 milioni di masse, tramite contratti tra fondi e assicurativo fino al 2038. È un sistema importante per il Paese per via dell’equilibrio che garantisce e per la custodia del risparmio tricolore. Si tratta di una mossa strategica per avere il pieno controllo delle cosiddette “fabbriche prodotto” da veicolare sulla propria rete di sportelli, ma anche su altri network. La tendenza è quella di internalizzare il più possibile le attività che possono produrre commissioni, che per una banca rappresentano preziosi ricavi alternativi al margine di interesse.
Non è da escludere quindi che la battaglia tra Unicredit e Banco Bpm trovi in Anima la sua camera di compensazione e che invece lo scambio col governo prevederebbe una posizione vicina agli antagonisti di Mediobanca in Generali. Troppo presto per dirlo. Se Unicredit dovesse ritoccare l’offerta al rialzo diventerebbe difficile dire no. Potrebbe arrivare a offrire un incentivo cash fino a 4 miliardi, alzando la sua offerta a 9,3 euro ad azione, con un premio del 20% sulle attuali quotazioni, segnalano gli analisti di JpMorgan. Il caso vuole che il colosso americano sia proprio quello che ha assistito la francese Crédit Agricole nella costruzione della sua partecipazione in Banco Bpm, a partire dall’iniziale 9%, poi salito in più riprese fino al 15,1% di oggi e con un’ipotesi di crescita al 19,9% comunicata alla Bce. La banca francese è titolare dell’accordo di distribuzione dei prodotti Amundi con Unicredit, che sta a cuore ai francesi perché rappresenta circa il 20% dell’utile netto della stessa Amundi, pur avendo nel nostro Paese il 9% delle sue masse gestite.
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