La «sinistra» italiana nel mondo nuovo del totalitarismo neoliberale

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La fase di accumulazione del capitale che si sta aprendo con la cosiddetta «era Trump»» non può, a rigore, considerarsi come l’ingresso in un «mondo nuovo». Il neoliberismo, infatti, ha già una lunga storia dietro le spalle, storia in cui ha subito molte trasformazioni restando nello stesso tempo sempre sé stesso.

Certamente, però, si tratta, se non di un’«era», di un indicatore con forte valore periodizzante. L’«era Trump» ne rappresenta tanto il punto di arrivo che quello di un ulteriore mutamento.

Nel 2009 (The Education of a Libertarian) Peter Thiel, padrone, insieme a Musk, di una gigantesca piattaforma come Pay Pal, arriva alla conclusione che la «democrazia non è più compatibile con la libertà», sua e di Musk. Oggi Thiel e Musk, in rapporto simbiotico con Trump, sono in grado di utilizzare una forza politica per rendere operante questa distopia mediante una nuova forma-fascismo. Del resto, il neoliberismo ha sempre contato sulla forza politica dello Stato come essenziale struttura protettiva. Una struttura in grado di mettere al riparo il mercato dalle distorsioni provenienti da un altro tipo di richieste di protezione: quelle dei sostenitori della giustizia sociale, quelle provocate dalla «malattia chiamata “proletariato”» come un altro illustre ordo-neoliberista, Wilhelm Röpke, chiamava l’antitesi sociale e politica.

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Ora tale forza può essere esercitata, senza contrappesi, proprio a partire dal centro dell’Impero.

L’Italia, componente periferica dell’Impero, si è dichiarata convintamente partecipe al salto di qualità del neoliberismo apertosi con l’annunciazione trumpiana. La forma-fascismo disposta a forzare lo stato di diritto onde «proteggere» le libertà della nuova «economia palaziale», governa già il Paese. Inoltre, alla costruzione dell’impianto neoliberista, delle sue strutture politico-economiche hanno contribuito, spesso in posizione di primo piano, il Pd e prima il Pds e le varie «Cose», cioè la parte largamente maggioritaria della «sinistra per simmetria».

Al di là di alcune affermazioni autocritiche di Elena Schlein, le scelte del Pd sulle questioni fondamentali, sedimentate in alcuni decenni di storia, non cambiano.

Giuseppe Vacca sostiene che il Pd è convinto «che non ci sia altra geopolitica immaginabile per l’Italia e per l’Europa che non sia quella di chi è il migliore amico di Washington». Quella per cui il «glorioso partito a cui [è] iscritto» continua a votare in parlamento (l’Unità, 23 novembre 2024). E ciò è rilevatore di appartenenza ad un «occidente» concepito secondo i parametri di profonda continuità con il tipo di globalismo neoliberista a trazione statunitense.

La sinistra che intende essere erede della storia del movimento  operaio non può prescindere, nella sua lettura dei processi in corso, da riferimenti alle categorie analitiche della critica dell’economia politica. Quindi, non c’è alcuna affinità tra prospettive politiche che poggiano su dimensioni strutturali del tutto diverse.

L’accelerazione rapidissima impressa dal trumpismo a quel punto centrale del neoliberismo che ha continuamente sottolineato l’incompatibilità della democrazia con la «libertà» fondamentale della logica di accumulazione, comporta la possibilità, in molti casi pressoché la certezza, che lo stato di diritto si riduca ad un vuoto involucro.

Nell’Italia governata da una forma-fascismo radicata e di lungo periodo si sta procedendo a tappe forzate verso tali esiti. La resa dei conti definitiva con la Costituzione è fenomeno inaccettabile anche per il Pd che, nonostante le contraddizioni della sua opposizione, dovrà impegnarsi davvero per impedire il compimento del percorso in atto.

La debolissima, frazionata, ininfluente sinistra dell’antitesi ha come suo compito principale quello della costruzione di una forza che abbia reale consistenza. In questo lungo e faticoso processo rientra anche, nel breve periodo, l’impegno per l’interruzione della fase meloniana.

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Un obbiettivo cui si trovano a convenire anche altre forze politiche con le quali la sinistra dell’antitesi non ha affinità di rilievo, ma con le quali si apre, comunque, un problema di rapporti.

Antonio Labriola, il filosofo italiano impegnato ai livelli più alti della politica e della teoria nella costruzione dei fondamenti della «diversità» socialista, più di un secolo fa si trovò ad affrontare, nelle profonde differenze di contesto e di protagonisti, una questione analoga. La durissima repressione del governo Crispi nei confronti dei movimenti sociali e politici a carattere socialista provocava profonde lesioni nel tessuto dello stato liberale inaccettabili anche per le sinistre radicali e repubblicane. Era necessario costruire reti di resistenza senza contemporaneamente attenuare i caratteri distintivi della «diversità».

Scrive Labriola ad Engels (luglio 1894). «Per me la questione degli affini – non esiste – perché non ammetto ci siano affini – e per ciò mi paiono possibili gli accordi temporanei fatti con tatto».

Con tatto, ma fare politica, ieri come oggi.



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