Resta al palo l’infermiere di famiglia e di comunità, la nuova figura di prossimità incaricata di garantire l’assistenza e la gestione integrata delle cure in favore, in particolare, delle persone anziane e dei malati cronici. A più di quattro anni dall’introduzione da parte del decreto 34/2020, la pandemia da Covid era scoppiata da pochi mesi, sono operativi soltanto 1.464 infermieri su circa 9.600 previsti. Poco meno del 20%.
Il personale del Ssn
L’ultima foto, aggiornata a fine 2022, l’ha scattata il ministero della Salute nel recente rapporto sul personale del Sistema sanitario pubblicato a dicembre 2024. Il personale paramedico, peraltro, risulta assunto solo in dieci regioni (Lombardia, Toscana, Umbria, Lazio, Emilia Romagna, Piemonte, Marche, Veneto, Liguria, Basilicata) più la Provincia di Trento.
Ma chi è l’infermiere di famiglia e di comunità? È un operatore, in buona sostanza, che agisce in collaborazione con gli attori e i professionisti presenti nella comunità in cui lavora, dai medici di famiglia al privato sociale.
Non dunque un semplice dipendente dell’azienda sanitaria che si limita a effettuare prestazioni sanitarie, pensiamo al cambio del catetere, come succede nel caso del personale che svolge ad esempio l’assistenza domiciliare integrata (Adi), quanto soprattutto una figura di raccordo.
Le linee di indirizzo per gli infermieri di comunità
Le linee di indirizzo approvate a settembre 2023 dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) sulla scorta del decreto (77/2022) che ha ridisegnato l’assistenza sanitaria territoriale, stabiliscono a tal proposito che l’infermiere di famiglia e comunità: contribuisce a individuare il bisogno di salute in tutte le fasce d’età; partecipa alla programmazione delle attività; promuove il coinvolgimento attivo e consapevole della comunità organizzando momenti di educazione sanitaria; promuove attività di informazione; valorizza il coinvolgimento attivo della persona e del suo caregiver; lavora in collaborazione con le reti sociosanitarie, il Terzo settore, i medici di famiglia, i pediatri e gli altri professionisti sanitari.
Utilizza, last but not least, gli strumenti digitali, la telemedicina e la teleassistenza.
Il ritardo nell’attivazione del nuovo profilo professionale è tanto più significativo se si considera che la normativa istitutiva prevede che ci sia un infermiere di famiglia e di comunità ogni 3mila abitanti.
All’incirca 20mila operatori sanitari che dovrebbero essere impiegati anche nelle Case di comunità, perno della riforma dell’assistenza territoriale e del successivo Pnrr. Il decreto “Rilancio” peraltro aveva previsto un finanziamento di 332,6 milioni di euro per il 2020 e di 480 per il 2021.
Le lentezze e la rendicontazione
Come spiegare la lentezza nell’avvio, al netto della cronica difficoltà del sistema sanitario italiano a reclutare gli infermieri?
VITA ha raccolto l’opinione di Nicola Draoli, consigliere della Federazione nazionale ordini professioni infermieristiche (Fnopi). «I dati ministeriali si riferiscono alle regioni che hanno attinto a quel finanziamento previsto dal decreto “Rilancio” Il punto è che c’è un problema di rendicontazione. Non abbiamo contezza di quanti operino perché, a differenza dei medici che hanno specializzazioni e possono così essere distinti fra cardiologi e urologi, gli infermieri per la Ragioneria dello Stato sono sempre tali tanto se destinati alla rianimazione quanto al territorio come l’infermiere di famiglia e di comunità. È noto che le aziende sanitarie hanno già degli infermieri che operano sul territorio per l’assistenza domiciliare integrata. Prima di chiamarli infermieri di famiglia bisogna vedere però che cosa fanno effettivamente: vanno a casa a mettere la flebo o fanno interventi proattivi di educazione, hanno un rapporto diretto con il cittadino, stanno in una rete insieme al medico di famiglia? Si tratta di una figura che a regime dovrà prevedere per forza a una specializzazione e uno specifico inquadramento contrattuale», sottolinea Draoli.
Lo snodo della formazione
Il consigliere nazionale invita tuttavia a vedere anche il bicchiere mezzo pieno. «Tutte le regioni hanno deliberato il modello, previsto la figura e avviato percorsi di formazione», fa notare. Vero snodo centrale sarà proprio la formazione. Al momento le regioni e le aziende sanitarie procedono in ordine sparso puntando sui master universitari o su percorsi interni.
«L’infermiere di famiglia e di comunità ha una funzione sociale oltre che sanitaria. Oggi, ad esempio, gli anziani non sono più in una rete familiare che si prende cura di loro come un tempo ma vivono spesso soli. I nuovi bisogni richiedono una formazione differente che non può essere appresa con i tre anni della laurea di primo livello. Serve un’ulteriore specializzazione. L’intesa con il ministero dell’Università per la creazione di lauree biennali magistrali va in questo senso», commenta il componente della Federazione.
La scommessa per il Terzo settore
Il nuovo professionista dell’assistenza locale rappresenta anche una scommessa anche per il Terzo settore. «Lo sviluppo della sanità territoriale deve basarsi sulla community building, la costruzione di una comunità solidale di auto-aiuto composta dal Terzo settore ma anche dalle reti informali come può essere anche il condominio. L’infermiere deve attivare e coordinare questi livelli di supporto che vengono dal volontariato o dalle reti familiari o di amici. Non è un caso se le Case della comunità, almeno quelle hub, è previsto che abbiano all’interno degli spazi fisici per poter ospitare le realtà associazionistiche e i cittadini», spiega Draoli. La porta è aperta al non profit.
In apertura foto di Attilio Cristini/Sintesi
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