Processo ai Casalesi di Eraclea, il presunto boss: «Non sono camorrista, ho subito estorsioni. Sparare e tagliare teste? Sono miei modi di dire»

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di
Alberto Zorzi

Lo show di Luciano Donadio in aula: «Il pm mi ha rovinato». La procura: c’era intimidazione

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«Questo è un processo in cui si è sempre parlato di quello che fa comodo a lei, la verità non le è mai interessata. Questo pm mi vuole far diventare un camorrista quando io sono stato estorto e ho solo cercato di uscirne. Lei ha rovinato la mia famiglia e i miei figli». La scorsa udienza era saltato per motivi di salute, giovedì invece nell’aula bunker di Mestre è andato in scena il Luciano Donadio show.

Il processo d’appello e la «capacità di intimidazione»

D’altra parte – come ha detto l’uomo sotto accusa come boss del clan dei Casalesi di Eraclea, esaminato all’udienza del processo di appello – «qua è la vita mia che sta sotto, non la sua», rivolto soprattutto al pm Roberto Terzo, che ha condotto tutta l’indagine. Su di lui pende infatti una condanna a 26 anni e 3 mesi in primo grado, nonostante le difese siano riuscite a ottenere il mancato riconoscimento dell’associazione mafiosa. Mafia che invece c’è per la procura, che il 6 febbraio ha iniziato la requisitoria con un «cappello» del sostituto pg Marina Ingoglia sottolineando proprio la «capacità di intimidazione» di Donadio tramite i suoi sodali, «soggetti chiamati per la dimensione fisica, gli approcci minacciosi e gli atti violenti, commessi sempre in gruppo».




















































Gli attacchi dell’imputato al magistrato

La Corte d’appello aveva ammesso di risentire Donadio e altri testimoni solo sulla «mafiosità» del sodalizio. Ma il boss ha negato su tutta la linea, non lesinando attacchi ai magistrato. Come quando ha raccontato delle minacce ricevute da Daniele Corvino, uomo del clan che però nel giugno 2000 era fuggito da Casal di Principe in Veneto e gli aveva chiesto 50 milioni di lire. «Mi disse “sono Daniele o’ specchiato, se non mi dai i soldi spacco la testa a te e ai tuoi genitori” – ha raccontato Donadio – Mi diede appuntamento al casello di Noventa e scese dalla macchina con la pistola in mano. E voi eroi d’Italia che mi avete intercettato per vent’anni perché non siete intervenuti?».

«Mi fingevo amico del clan»

In realtà il pm Terzo gli ha spiegato che in quel momento non era sotto monitoraggio, ma lo sarebbe diventato nel dicembre, quando emergono i suoi contatti con Corvino. «Stavo fingendomi suo amico, gli ho dato un milione e mezzo di lire, in realtà volevo uscirne – ha spiegato – Che rapporti si possono avere con uno che minaccia la tua famiglia? Un camorrista ti può sparare davanti al portone di casa, alle gambe». E al quesito sul perché non avesse denunciato, altra stoccata: «Là c’era la vera antimafia, non quella qui in Veneto, quelli uccidevano le persone». A chiedergli 50 milioni furono anche, nel 2002, Cesare Bianco («non sapevo che lui e Augusto fossero i referenti dei casalesi in Veneto») e un altro. «Io non gli ho dato nulla», la replica.

«Tagliare le teste e sparare? Modi di dire»

Il pm gli ha letto le intercettazioni in cui diceva di «tagliare la testa» a uno o «sparare» all’altro. «È un mio modo di parlare, altrimenti avrei 400-500 persone sulla coscienza – ha scherzato l’imputato – Lei sa quante teste ho tagliato io? Tantissime con la bocca», ha detto. «Io sono stato sempre uno che non si è voluto piegare», ha aggiunto. E a domanda del difensore dell’ex sindaco Mirco Mestre, su come fosse la sua situazione economica nel 2016, la risposta è stata secca: «Come potevo dare soldi per la campagna elettorale se non li avevo nemmeno per me?».

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