la rete dei soldi riciclati con le false fatture

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Bonifici giornalieri su conti correnti cinesi: a disporli, ha ricostruito la Procura di Napoli, erano i Nani, imprenditori napoletani attivi nel settore calzaturiero. Centinaia di migliaia di euro inviati come pagamenti per merce comprata in Asia, ma in realtà, sostengono gli inquirenti, non c’era alcuna merce. Gli acquisti rappresentavano solo una ‘scusa’ per giustificare lo spostamento di denaro all’estero.

Qual era il motivo di questa frenetica movimentazione? Garantire la possibilità di inserire nei documenti contabili della rete di ditte coinvolte spese fittizie, riducendo così le tasse da pagare e consentendo alle società di evadere il fisco. E questo non sarebbe stato l’unico ‘beneficio’ illecito del sistema. Ce n’era anche un altro: rientrare in possesso dei soldi inviati, tenendoli fuori dal circuito bancario. Il denaro tornava in Italia in contanti, creando così una ‘sacca’ di nero che gli uomini d’affari campani potevano sfruttare senza vincoli.

Queste risposte al quesito sul perché del flusso di soldi verso la Cina si trovano nel decreto di sequestro preventivo disposto la scorsa settimana dal giudice Maria Gabriella Iagulli del Tribunale di Napoli, provvedimento che ha messo sotto chiave beni dal valore di 81 milioni di euro e indagato 66 persone (accusate a vario titolo di associazione a delinquere, riciclaggio, trasferimento fraudolento di beni e uso di false fatture).

In questo presunto meccanismo, ad avere un ruolo centrale sarebbe stata una coppia: Zhiqiang Chi, 40enne, e sua moglie Leiwei Xia, 39enne, entrambi residenti a Napoli. Erano loro, dice l’accusa, ad avere rapporti con i già citati Nani, indicando i conti su cui fare i versamenti e, in secondo battuta, riportando ai partenopei, in contanti, quanto avevano inviato in Cina.
Le fiamme gialle che hanno condotto l’indagine, oltre a tracciare i flussi bancari, sono riuscite, sostiene la Procura, anche a rilevare le consegne di denaro dei cinesi ai Nani: avvenivano nei parcheggi di alcuni centri commerciali tra le province di Caserta e Napoli e, una volta presi, solitamente da Vincenzo Nani, secondogenito di Corrado Nani, li portavano negli uffici del polo calzaturiero di Carinaro dove venivano redistribuiti. I Nani avrebbero adottato questo sistema non solo per agevolare le loro ditte, ma, dice l’accusa, anche per altri imprenditori campani. In alcuni casi, quando Corrado Nani non era in zona, a preoccuparsi di prelevare il denaro che rientrava dai bonifici ai cinesi sarebbe stata Teresa Rucco, sua dipendente, di Trentola Ducenta. La somma che veniva ridata, però, era decurtata della provvigione per i Nani, corrispondente alla metà dell’Iva applicata alle fatture.

Anche gli asiatici prendevano una quota dai soldi: non agivano gratuitamente. A quanto ammontava? Il 2 percento dell’importo fraudolentemente trasferito in Cina.

Secondo la Procura, questo meccanismo, attivo dal dicembre 2020, era gestito da una vera e propria associazione criminale guidata da Corrado Nani e da suo fratello Claudio, ritenuti amministratori di fatto di svariate società, tra cui Campania Pelli, Unipel, Corna Pelli, Pelvin, Vl Pellami e Kimpel. E nell’organizzazione avrebbero avuto un ruolo anche Giuseppe Nani, figlio di Claudio, i germani Vincenzo e Giuseppe, figli di Corrado, e un nipote di quest’ultimo, Giuseppe, la Rucco, principale collaboratrice di Corrado Nani, gli imprenditori Francesco Barbato, Nicola Barbato, Massimo Calabrese, Luca Ferrini, Enzo Vullo e la coppia cinese, che sono di Napoli, Frattaminore, Cesa e Montopoli Val d’Arno.
Logicamente, questi soggetti elencati e gli altri indagati sono da considerare innocenti fino a un’eventuale sentenza di condanna irrevocabile.

Sfruttare i canali cinesi per evadere il fisco e riciclare denaro: sono le finalità di un sistema che la recentissima indagine delle fiamme gialle, centrata sugli imprenditori partenopei Nani, è riuscita a tracciare, sostiene il Tribunale di Napoli, in modo chiaro.
Ma a intercettare quella via orientale è stata, qualche anno prima, un’inchiesta, pure condotta dalle fiamme gialle, che puntava a un imprenditore di Casal di Principe: si tratta di Antonio Caliendo. L’uomo d’affari aveva attivato, dice l’accusa, una rete di società cartiere che riusciva attraverso un giro di false fatturazioni, a far evadere il fisco ad altri imprenditori. Nel corso di questa attività investigativa è emersa anche la sua vicinanza a Nicola Schiavone, detto ‘o russ, già condannato per associazione mafiosa.

Nell’esplorare tali contatti, i finanzieri apprendono che proprio ‘o russ sarebbe stato intenzionato a usare le false fatture in relazione a dei lavori che, grazie a una società intestata a un prestanome, aveva ottenuto a Capodrise e a Casal di Principe. E Caliendo si sarebbe reso disponibile ad aiutarlo. Come? Paventandogli proprio la ‘strada cinese’. Ma gli asiatici che conosceva lui, a quanto pare, erano più costosi rispetto a quelli in rapporto con i Nani, dato che, riferisce Caliendo a ‘o russ, bisognava prevedere una spesa del 6 percento.

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