Lo chef stellato Matteo Baronetto dopo l’addio al «Del Cambio» di Torino: «Ora apro una “bottega”, qui si mangerà e l’amicizia avrà valore»

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Luca Iaccarino

Lo stellato: «Al Del Cambio ho dato tutto me stesso e l’ho destabilizzato. Spero che ciò che ho costruito resti e che tra trent’anni si possa avere documentazione del mio passaggio»

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«Vorrei costruire qualcosa di diverso da un ristorante in senso tradizionale. La parola giusta penso sia “bottega”, perché trasmette umanità, l’idea dell’artigianato, delle relazioni. Un luogo dove fare ricerca nel senso profondo della parola; dove preparerò da mangiare, certo, ma in cui ridare valore alla parola “amicizia”. In questi anni ho conosciuto tante persone eccezionali che hanno nutrito la mia parte spirituale, chiamiamoli “amori intellettuali”: vorrei si incontrassero lì, donne e uomini con professionalità diverse ma unite da una medesima sensibilità. E vorrei realizzare questo a Torino, entro la fine dell’anno». Matteo Baronetto siede sul divano di casa e parla per la prima volta dopo la notizia del suo addio al ristorante Del Cambio, cui era tornato da Milano undici anni fa, dopo la stagione a fianco di Carlo Cracco.

 Lui e sua moglie si sono trasferiti in questa bella casa luminosa due anni orsono, qui tutto sa di arte e design: il tavolo di cristallo e legno chiaro di Carlo Mollino, i materiali alle pareti che evocano Van Gogh e Richard Serra, le opere d’arte. «Le ho fatte io, da vent’anni ogni nuovo piatto diventa un quadro». Sono forme astratte, come la sua cucina. In ingresso, anche le sue «uova im-perfette», sculture che rappresentano uova crepate, ma non rotte («fanno da guardiani», dice). Ci accoglie in maglietta bianca, con un caffè della moka, e prima di iniziare la conversazione ci mostra i suoi disegni, i suoi esperimenti di tipografia, svestito dei panni ufficiali con i quali l’abbiamo conosciuto in tutti questi anni. «Dipingo fin da quando ragazzo stavo dai miei, a Giaveno. I miei pensieri disegnati mi permettono di non smettere di cucinare anche quando sto lontano dai fornelli». Quindi non si sottrae all’attualità.




















































Dopo dieci anni, lascia Del Cambio. Cosa è successo?
«In ogni azienda ci sono delle fasi: la start-up, la crescita, l’assestamento. Il primo giorno in cui incontrai Michele e tutta la famiglia Denegri, proprietaria del locale, ci dicemmo: “dobbiamo restituire alla città un luogo magico che rispetti la cultura e la tradizione ma che sia capace di essere contemporaneo. E che sappia essere redditivo, formare professionisti, creare valore sociale”. L’abbiamo fatto, superando assieme momenti difficilissimi, la pandemia, i tempi incerti in cui viviamo. Oggi siamo entrambi pronti: Del Cambio a emanciparsi da Baronetto e viceversa. Del Cambio è eterno, Baronetto, come tutti gli umani, no».

Che cosa le ha dato Del Cambio?
«Non solo il ristorante, ma la città stessa mi ha aiutato a capire che cosa è essenziale. Tornato da Milano in quello che tanti descrivevano come un “vecchio mondo”, ho invece trovato un sano bagno di concretezza. Torino e Del Cambio mi hanno insegnato il valore delle cose fatte bene, della meritocrazia conquistata e non urlata. Ringrazio i clienti torinesi per avermi insegnato questo. Sono stato anche criticato, giudicato, a volte non amato, ma sono state assai più preziose le occasioni in cui ho incontrato persone speciali che mi hanno dato tanto».

E lei cos’ha restituito a Del Cambio?
«L’ho destabilizzato. Sono entrato in un santuario in punta di piedi ma con l’intenzione di portare vita, gioia, come se il ristorante fosse stato una bottiglia d’acqua gasata e io l’avessi agitata. Ho dato a Del Cambio tutto me stesso, e sono convinto che quella scossa fosse necessaria: il mondo stava cambiando, stava cambiando la cucina, una generazione di cuochi e di clienti subentrava alla precedente. Ho dato il mio contributo in quella fase di rinnovamento. E l’apertura della Farmacia e del Bar Cavour hanno permesso alla struttura di esprimersi con voci diverse».

Cosa augura a Del Cambio per il futuro?
«Sono certo che continuerà, come è sempre stato, a essere il luogo di rappresentanza, delle relazioni, dove celebrare i grandi eventi in un posto magico. E spero anche che possa fare tesoro e conservare il lavoro fatto in questi anni: quando arrivai io fu difficile trovare traccia di quel che Del Cambio era stato nel passato, se non per qualche aneddoto su Cavour. Spero invece che ciò che costruito resti come un lascito, che tra trent’anni, quando qualcuno chiederà come si mangiava un tempo, possa avere documentazione del mio passaggio. Come dice Ferran Adrià, bisogna mettere nero su bianco, lasciare memoria scritta. Come ho tentato di fare anche con i miei libri (oltre ai conosciuti Cucina piemontese contemporanea e Iconiche similitudini ci mostra un piccolo gioiello di tipografia a sua firma intitolato Pensieri e vapori, realizzato da Archivio Tipografico: “è la sintesi perfetta di cosa sono”)».

Lei continuerà a stare a Del Cambio fino ad aprile, quando raggiungerà la fine dell’undicesimo anno a Torino. Poi?
«Michele Denegri mi ha detto: le persone di talento vanno protette. Faccia quel che vuole, le do carta bianca per il suo nuovo progetto, se vorrà la supporterò».

Cosa farà di questa carta bianca?
«Un luogo di “ricerca rinascimentale”. Non mi rassegno ai ragazzi chini sui cellulari, si può stare assieme, comunicare in maniera diversa. Saremo una minoranza? Non importa, le persone continuano ad andare al Museo d’Orsay ad ammirare gli impressionisti, ancora c’è chi scatta foto in pellicola. Voglio un posto dove le persone si incontrino, del resto il mio menu a Del Cambio intitolato “similitudini” era dedicato a prodotti diversi che avevano affinità: questo mi interessa ancor di più nell’umanità. Ogni mio pensiero in cucina nasce dall’osservazione di ciò che mi circonda».

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Sarà un ristorante?
«In questi giorni ho ricevuto tante telefonate e proposte, grandi alberghi, altre città. Ma non è quel che voglio. Desidero un posto diverso, un luogo dove si potrà mangiare — sono un cuoco, diamine! — e raccontarmi. Anche facendo cose semplicissime: non creda, a me piacciono anche gli spaghetti e l’uovo alla coque! Questo non significa rinunciare alle ambizioni: penso che un progetto in cui possa distillare quel che sono possa valorizzare il mio lavoro. Credo di essere molto di più delle mie sole mani».

Cosa intende per “bottega”?
«Le faccio un esempio al di fuori della ristorazione. Vado a incorniciare i miei lavori da un artigiano in via San Quintino: ha il bancone in legno, sono padre e figli, ti accolgono in camicia, con il grembiule ordinato, c’è cura, savoir faire. Oppure penso all’Archivio Tipografico con gli antichi macchinari ripristinati, l’odore di cera per il legno, i giovani curiosi e affamati del bello. Questo è quello che mi piace di Torino. Magari prima coglierò l’occasione per respirare un po’, per fare qualche viaggio alla scoperta di sapori e spezie, a Marrakesh, in Giappone, ma tornerò qui».

Dove aprirà? Quando?
«Mi sto guardando attorno. Voglio qualcosa di speciale, che non esiste ancora. Conto di partire entro fine anno, ma non sono impaziente, non mi pongo limiti di tempo. Spero sarà uno spazio di cui i clienti penseranno “come si sta bene, qui”. Ciò che desidero davvero è rendere felici le persone che mi verranno a trovare: è l’unico modo per essere felice io».

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8 febbraio 2025 ( modifica il 8 febbraio 2025 | 10:57)

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