Vittime delle foibe, «papà preso dai partigiani jugoslavi e portato per tre volte sull’orlo dell’abisso»

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di Greta Sclaunich

Quella di Anna Maria Crasti, costretta nel 1947 a scappare da Orsera, è una delle tantissime storie degli esuli dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia. Ciò che rimane di quella pagina nera si trova a Trieste, nel Magazzino 26: oggetti che sono la memoria di una comunità spazzata via

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«Se penso all’Istria, la prima immagine che mi viene in mente è Orsera, il mio paese. Le case bianche, il mare blu, le isole verdi. Lì sono nata e cresciuta. Da lì ho dovuto andarmene: eravamo duemila abitanti, siamo partiti in 1.960». Anna Maria Crasti ha 83 anni e la sua storia di esule giuliana l’ha raccontata tante volte. Eppure, anche se da quella notte del 1947 in cui fuggì lasciandosi dietro tutto il suo mondo sono trascorsi poco meno di 80 anni, ogni volta che ripercorre il suo passato gli occhi le si inumidiscono e la voce trema. Ricorda la paura degli arresti e delle foibe, gli amici perduti nell’esodo e mai più ritrovati, il suo paese, Orsera, dove non si sente più a casa. Perché adesso si chiama Vrsar e si trova in Croazia: ora Anna Maria, lì, è una straniera. 

Terre di confine, crocevia di tre mondi

La sua è solo una delle tantissime storie che compongono il mosaico dell’esodo da Venezia Giulia e Dalmazia. Terre che sono sempre state di confine e crocevia di tre mondi: latino, slavo, germanico. Prima romane e poi venete, in seguito finite sotto l’Impero austroungarico e diventate italiane dopo la Prima guerra mondiale. Dopo la Seconda, una parte è rimasta in Italia e l’altra è finita nell’allora Jugoslavia, oggi Slovenia e Croazia. Da queste zone divenute oltre confine circa 350mila italiani, come Anna Maria, se ne sono andati. La stragrande maggioranza delle loro storie ha dei punti in comune: la paura, il pregiudizio, il dolore del ricordo. 




















































Salvato dai tedeschi

La paura comincia nel 1943, con l’Armistizio. I primi ad occupare la zona sono i partigiani comunisti guidati dal leader della resistenza jugoslava Josip Broz Tito. Ai nazisti ci vorrà circa un mese per prendere il controllo dell’area e nel frattempo i titini iniziano una rappresaglia contro i fascisti: perquisizioni e arresti non si contano. Ma le ritorsioni non riguardano solo i fascisti: di mezzo c’è anche l’odio contro gli italiani dopo vent’anni di italianizzazione forzata. Nel calderone finiscono pure rancori e vendette personali, soprattutto contro le famiglie benestanti. «Anche noi lo eravamo: la mia famiglia aveva un distributore di benzina, una bottega e alcuni appezzamenti di terreno. Papà Giovanni, che era direttore del consorzio agrario della vicina città di Parenzo, per tre volte viene convocato per “accertamenti” e portato di notte nei sentieri tra i boschi, fino all’ingresso di una foiba. Tutte e tre le volte viene salvato dai soldati tedeschi che giravano per le campagne a rastrellare i partigiani jugoslavi», ricorda Anna Maria.

I processi sommari e le foibe

Non tutti sono stati così fortunati: alcune delle persone prese dai titini, spiega lo storico Raoul Pupo, «venivano legate con il filo di ferro e portate sull’orlo delle foibe, spesso dopo processi sommari, e fucilate: le vittime così ci cadevano dentro, risparmiando agli aggressori il colpo di grazia. A volte qualcuno era ancora vivo quando finiva dentro questi inghiottitoi tipici del Carso, profondi anche centinaia di metri. Un paio di persone sono riuscite a salvarsi, in altri casi si sono sentite per giorni le urla che salivano dal fondo di questi buchi che si aprono nel terreno». 

L’orrore ricomincia nel 1945, all’indomani della Liberazione, quando queste zone vengono prese dai partigiani jugoslavi: in tutto le vittime delle foibe saranno circa 4mila. Quelli che, ricorda Pupo, «i titini consideravano “nemici del popolo”, cioè la classe dirigente italiana, protagonista del fascismo e detentrice del potere economico, sociale e politico che andava distrutto per costruire il potere comunista jugoslavo». Si tratta, analizza lo storico, di «logiche tipiche della guerra di liberazione jugoslava» che instaurano un clima di paura che andrà avanti a lungo

L’arresto e la fuga

Logiche nelle quali rimane invischiata anche la famiglia Crasti. «Nel 1946 papà viene arrestato di nuovo proprio con l’accusa di essere un nemico del popolo. Uno dei contadini croati che lavoravano per noi testimonia a suo favore e viene scagionato, ma lo avverte che entro pochi giorni lo verranno a prendere e lo uccideranno subito. Papà scappa a Trieste insieme a suo fratello, ma il resto della famiglia — io, mia mamma, mia sorella e le mie nonne — resta bloccato dall’altra parte del confine», prosegue Anna Maria. Lei scapperà, di nascosto, poche settimane dopo insieme a mamma Benedetta. Di notte, via mare, su una barca con i remi avvolti negli stracci per non far rumore e non insospettire i soldati jugoslavi a guardia del porto. Le nonne Anna e Francesca, invece, richiederanno l’opzione, cioè i documenti ufficiali allo stato jugoslavo, per poter partire legalmente.

Sembra facile ma non lo è. Perché i documenti sono tutti in croato, lingua che gli italiani di Venezia Giulia e Dalmazia difficilmente parlano. Perché gli uffici spariscono o cambiano sede all’improvviso e non si riesce a consegnare le scartoffie. Perché si ha un cognome di desinenza slava e allora la domanda viene rifiutata. Oppure perché, anche senza una ragione precisa, i funzionari decidono di bloccare la richiesta. Nella trappola finisce anche Anna Maria: i genitori la rimandano a Orsera dalle nonne per quella che pensavano sarebbe stata solo l’estate ma, al momento della partenza, la bimba viene bloccata alla frontiera. Per un anno le due donne e la nipote non riescono a partire: l’opzione viene regolarmente rifiutata e lei, di fatto, è prigioniera. Finché, improvvisamente e senza alcuna spiegazione, le pratiche si sbloccano e possono lasciare l’Istria. 

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«Sporchi esuli» 

Partono in tanti, tantissimi. «Diversi borghi si spopolarono perché ad andarsene fu l’80-90% della popolazione. A scegliere la definizione di “esodo” furono gli esuli stessi, a sottolineare il fatto che si trattò di un abbandono forzato, simile a quello narrato dalla Bibbia», sottolinea Renzo Codarin, presidente di FederEsuli, la federazione che riunisce le varie associazioni degli esuli istriani, fiumani e dalmati. Gran parte dei profughi scelse come meta Trieste, perché più vicina all’Istria ma, come spiega Codarin, «giuliani e dalmati finirono in campi, caserme e colonie sparse in 109 località italiane». Spesso si tratta di luoghi freddi e malsani dove le famiglie vivono in grandi stanzoni, in cui appendono le coperte a corde fissate ai muri per ricavare stanze di pochi metri quadrati. 

Non che fuori dai campi la situazione sia migliore. C’è chi li considera filotitini e chi fascisti, chi teme che ruberanno loro il lavoro: eccolo, il pregiudizio. «Ci chiamavano “sporchi esuli”, e sporchi lo eravamo davvero: nei campi profughi non era facile lavarsi», sospira Anna Maria. Lei è fortunata perché la sua famiglia ha la possibilità di comprare un appartamento a Trieste ma le sue nonne non riescono a superare il dolore del ricordo. Nel giro di pochi anni si spengono, consumate dalla nostalgia di casa e dalla perdita degli affetti. Anna Maria ricorda ancora quando, alle 14:30 in punto, si mettevano davanti alla radio per ascoltare la stazione clandestina (sostenuta dagli americani) “Radio Venezia Giulia”. Andavano in onda messaggi e saluti da tutte le comunità degli esuli sparse per l’Italia ed era un modo per dare e ricevere notizie di amici e parenti lontani. E, magari, di ritrovare quelli persi durante l’esodo. Cosa non sempre possibile, come spiega Codarin: «Tanti fecero il grande salto e decisero di emigrare in America o in Australia». La stessa Anna Maria non ha più rivisto i suoi compagni di giochi di Orsera. 

Il Magazzino 26 e gli oggetti lasciati dagli esuli

Di queste persone finite chissà dove nel mondo restano le tracce in un enorme magazzino, nel porto vecchio di Trieste. Quando se ne andavano dalle loro case in Istria e Dalmazia, infatti, gli esuli portavano bauli, casse e valigie con le loro cose che venivano poi custodite in spazi appositi nei luoghi di arrivo, in tutta Italia. «Molti, negli anni, questi oggetti li hanno recuperati. Altri invece non sono mai più venuti a riprenderseli» spiega Piero Delbello, direttore dell’Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano dalmata. «Perché sono morti, o emigrati, o perché nelle loro nuove case e nuove vite non c’era più spazio per le cose del passato. Questi oggetti mai reclamati oggi sono custoditi nel Magazzino 26: sono la memoria di un’intera società spazzata via». Nei grandi stanzoni silenziosi, visitabili su appuntamento, sono accumulati sedie, credenze, letti, ma anche quaderni, pagelle, libri di ricette, piatti, posate. E poi ancora fotografie e macchine da cucire, mattarelli e pianoforti, medicine e arnesi da lavoro. Ci sono persino alcune statuine di un presepe. Muti testimoni di un passato rimasto chiuso oltre confine, che esiste solo nei ricordi di chi se n’è andato. 

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