La nuova linea spartiacque del caso Almasri, dopo il rimpatrio del miliziano libico e l’avviso di indagine alla presidente del Consiglio e ai ministri, è certamente rappresentato dai discorsi alle Camere del guardasigilli Nordio e del ministro dell’Interno Piantedosi. La gestione della spinosissima vicenda è apparsa fragile e approssimativa. Non da parte della Corte penale internazionale (CPI), come rimprovera Nordio, ma del Governo italiano. In proposito Il Sussidiario ha raccolto il parere tecnico di Gabriele Della Morte, ordinario di diritto internazionale pubblico e penale nell’Università Cattolica di Milano.
Nordio ha detto che “il ruolo del ministro non è semplicemente quello di passacarte”, ma di “organo politico che deve meditare il contenuto delle richieste in funzione di un eventuale contatto con gli altri ministeri”. Cominciamo da qui.
Due questioni diverse riguardano questa vicenda. La prima è quella della responsabilità internazionale dell’Italia, la seconda è quella della sua responsabilità interna. Entrambe sollevano problemi giuridici e problemi politici. Io posso attenermi soltanto ai primi. Sotto il profilo giuridico, siamo di fronte ad un chiaro illecito internazionale.
Per quale motivo?
La questione giuridica, dal punto di vista internazionalistico, è disciplinata dalle norme della parte IX dello Statuto della CPI, articoli 86 e seguenti, in combinato con l’articolo 59, che regola la procedura di arresto nello Stato di custodia richiamando anche la disciplina interna, che nel nostro caso è rappresentata da una legge, la n. 237/2012, espressamente dedicata all’adeguamento dell’ordinamento giuridico italiano alle disposizioni dello Statuto della CPI.
Nel nostro caso il miliziano libico Almasri, accusato di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Continui.
La CPI si fonda su un Trattato, firmato a Roma nel 1998 ed infatti vi si allude spesso come il “Trattato di Roma”. Lo Stato – l’Italia – che ha ratificato tale Trattato è obbligato dal diritto internazionale a dare esecuzione “in buona fede” alle sue norme. Questo è chiaramente sancito dall’ordinamento internazionale, e in particolare dall’articolo 26 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, il cui successivo articolo 27 prevede inoltre che “Una parte non può invocare le disposizioni del suo diritto interno per giustificare la mancata esecuzione di un trattato”.
Dunque abbiamo violato gli obblighi del Trattato istitutivo della CPI.
Precisamente. Non solo. Stando ai commenti sin qui prodotti dalla dottrina penalistica e processuale-penalistica – tra gli altri, per i soli commenti in lingua italiana, richiamo Michele Caianiello e Chantal Meloni; Khrystyna Gavrysh; Valeria Bolici e Alberto di Martino; Lavinia Parsi – si sarebbero anche violate le norme di diritto interno, dal momento che il ragionamento della Corte d’appello di Roma, fondato su una particolare interpretazione della 237/2012, che ha per titolo “Adeguamento allo statuto della Corte Penale Internazionale” e che prevede la disciplina della consegna alla CPI di persone che si trovino sul territorio italiano, contiene più di una fallacia argomentativa. Ma qui passiamo dalla violazione del diritto internazionale alla violazione delle norme interne.
Ci spieghi meglio.
Vi si dice che “Lo Stato italiano coopera con la CPI conformemente alle disposizioni dello statuto della medesima Corte” e che al ministro della Giustizia compete, “in via esclusiva”, di “dare seguito” alle richieste provenienti dalla Corte.
Cosa significa “dare seguito”?
Qui sorge effettivamente un problema di interpretazione che dipende dalla legge 237/2012. È una legge di adeguamento, è intervenuta cioè a modificare norme interne per permettere all’Italia di ottemperare agli obblighi dello Statuto, ma non lo ha fatto in modo sufficientemente articolato. Così né l’art. 4 né l’art. 11 della l. 237/2012 sembrano accordare al ministro della Giustizia alcun potere di valutazione discrezionale, né si comprenderebbe sulla base di quali parametri tale valutazione sarebbe operabile.
Sorge una domanda: sul mancato arresto di Almasri c’è stata una sorta di “smagliatura” tra gli obblighi della Procura di Roma e quelli del Governo?
È materia molto tecnica, ma un dato è certo: penalisti e processual-penalisti sono concordi nel ritenere che la legge 237/2012 conserva talune zone d’ombra, ma sono comunque concordi nel ritenere che l’interpretazione che ne è stata offerta in questo caso è decisamente pasticciata. C’è però un punto fermo, ed è di carattere internazionalistico: il diritto internazionale prevede, come regola generale, che il singolo Stato non possa mai invocare una norma di diritto interno per giustificare la mancata ottemperanza di un obbligo internazionalistico. E a questo occorre aggiungere che l’Italia, ai sensi dell’articolo 11 della nostra Costituzione, “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” e ancora che “promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Circostanza, evidentemente, non realizzata nel caso Almasri.
Nordio ha parlato anche di mancanza di “coerenza” nel mandato di arresto. Si ravviserebbero delle “incongruenze”, forse riferite al fatto che l’atto è stato emendato a 5 giorni di distanza.
Il mandato di arresto, emesso dalla Camera preliminare su richiesta del Procuratore internazionale è in linea con la prassi della CPI: vi si elencano le ragioni per le quali ci sono “fondati motivi” per ritenere che alcuni – terribili! – crimini sono stati commessi, circostanziando il tutto al livello richiesto per un mandato di arresto. Il quale – attenzione – non prevede che si specifichino i nomi dei testimoni o l’ora esatta del singolo episodio, magari di stupro o di tortura.
Sembra un dettaglio decisivo. Come si spiega?
Il problema non è tanto quello della circostanzialità degli eventi, che dovrà essere sottoposta a una successiva procedura di accertamento nel caso in cui siano confermate le accuse e si darà inizio al processo vero e proprio, quanto la “qualifica” delle violazioni presuntivamente compiute. Il processo della CPI è il superamento di un “test” di credibilità delle prove che sono state fino a quel momento prodotte, e questo “test” diventa sempre più stringente quanto più ci si avvicina al momento della sentenza di condanna, e quindi alla limitazione della libertà personale.
Detto altrimenti?
In altre parole, c’è una sorta di “proporzione” tra quello che occorre dimostrare e la “clava penale” che potrà colpire l’accusato. Al momento è una proporzionalità di livello tenue. Occorre dimostrare i “fondati motivi”, perché siamo ai primi passi del possibile procedimento; seguiranno i “validi motivi” per la conferma delle imputazioni e quindi il convincimento “al di là di ogni ragionevole dubbio” per riconoscere la colpevolezza.
Possiamo tornare al mandato di arresto?
Esso viene richiesto dal Procuratore, ma viene approvato dai giudici. Le 40 pagine del mandato di arresto pubblicate sul sito della Corte sono un’ordinanza emessa dalla Camera preliminare (Pre-Trial Chamber), non dal Procuratore.
Perché fa questa osservazione?
Perché questa procedura rappresenta un importante filtro giudiziale di garanzia. È la Camera preliminare ad approvare la richiesta del Procuratore della CPI, ragione per cui nel momento in cui arriva in Italia la richiesta di procedere all’arresto è stato già compiuto un accertamento di tipo giudiziale. È la Camera preliminare ad emettere il mandato d’arresto, non il Procuratore.
Questo ci porta ad una obiezione importante. Molti media hanno dato rilievo all’opinione dissenziente della giudice messicana Flores Liera, per sottolineare la fragilità del provvedimento.
La facoltà di adottare decisioni a maggioranza, includendo anche “dissenting opinion”, è riconosciuta ai sensi del Trattato di Roma e si può ritrovare anche in altre giurisdizioni internazionali. Essa esprime un disaccordo su un punto di fatto o di diritto, ma le ragioni espresse dal Giudice dissenziente non hanno nulla a che fare con quelle evocate dal Governo italiano. Essa concernono per lo più l’estensione giurisdizionale della Corte sotto il profilo temporale.
Cosa significa?
Il caso libico è stato attivato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, perché la Libia non è uno Stato parte della CPI. È come se la CPI funzionasse con due “motori”: il primo, che potremmo definire ordinario, riguarda i crimini compiuti da un cittadino di uno Stato parte al Trattato o nel territorio di quest’ultimo; il secondo, o meglio la “chiave” che accende il secondo, è una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU adottata ai sensi del capitolo VII della Carta ONU, ovvero sulla base delle iniziative intraprese nell’ottica del mantenimento della pace. Attraverso un atto eminentemente politico, il Consiglio di sicurezza può dare alla CPI un mandato aperto, che supera cioè i limiti giurisdizionali ordinari della Corte. È ciò che è avvenuto con la risoluzione 1970 del 2011, dal momento che la Libia non è uno Stato parte al Trattato sulla Corte. Secondo il giudice Flores Liera non possiamo interpretare, dato il periodo di tempo trascorso dalla risoluzione 1970, l’attuale situazione in Libia in cui sarebbero stati compiuti i crimini come coperta dal quel mandato, risalente appunto al 2011. Questo è il punto principale dell’opinione dissenziente, ma come si può facilmente comprendere non c’entra assolutamente nulla con l’obbligo di cooperazione dell’Italia ai sensi dello Statuto della CPI.
Un governo che dovesse rilevare delle incongruenze in un mandato di arresto – ad esempio, un’incompletezza formale – che ritiene illegittimo, cosa potrebbe fare?
Dovrebbe consultare la Corte, come d’altra parte la Corte stessa ha richiesto nel caso di specie.
Dunque, l’ipotesi che l’atto sia nullo per vizi procedurali o formali?
Allo stato attuale del dibattito non mi sembra plausibile. In ogni caso non è stato ancora chiarito a quali vizi, in particolare, si faccia riferimento.
Addurre come causa di ritardo o di esecuzione il fatto che il mandato fosse in versione inglese?
Surreale. Le lingue di lavoro della CPI sono inglese e francese ai sensi del Trattato istitutivo. Ratificando il trattato, l’Italia ha accettato quelle lingue di lavoro.
Secondo lei il governo aveva una strada per salvaguardare sia l’obbligo di arrestare Almasri, sia l’interesse nazionale, senza sacrificare uno dei due?
È una domanda alla quale è impossibile rispondere, per un motivo abbastanza semplice: in questa vicenda ci sono carte che rimangono coperte. Possiamo forse intuirlo, il motivo, ma questo non è il mestiere del giurista tecnico. Nel frattempo, da internazionalista, posso dire che qualsiasi fosse la posta in gioco, vi è comunque stata una inequivocabile violazione di un obbligo internazionale. E questo illecito internazionale non concerne soltanto il sistema degli Stati parte della CPI, ma anche la mancata ottemperanza ad un obbligo di diritto consuetudinario, valido cioè per tutti gli Stati, a prescindere dal numero degli Stati parte della CPI.
E qual è quest’obbligo?
È l’obbligo di aut dedere aut iudicare, ovvero giudicare, oppure consegnare a uno Stato o a una giurisdizione che intende giudicare, un presunto responsabile di quelle che le quattro Convenzioni di Ginevra definiscono “grave breaches”, gravi violazioni. Lo ha giustamente ricordato, in un comunicato ufficiale, persino la Società italiana di diritto internazionale. E i crimini che sono stati evocati nel mandato di arresto di Almasri sono inequivocabilmente violazioni alle Convenzioni di Ginevra. Nel mandato di arresto si fa riferimento a torture e persino stupri nei confronti di bambini piccolissimi.
Oggi è filtrata la notizia che la CPI avrebbe aperto un fascicolo contro il governo italiano; Palazzo Chigi ha smentito.
Se è così, non possiamo commentare alcunché.
Non è difficile notare che la CPI avrebbe atteso che Almasri fosse in Italia per emettere il mandato di arresto. È arrivato in Europa il 6 gennaio. Cosa pensa in proposito?
Supposizioni pretestuose non corredate da alcun dato.
Adesso che cosa potrebbe succedere?
La Corte ha il potere di deferire la mancata ottemperanza degli obblighi pattizi all’assemblea degli Stati parti, in questo caso addirittura al Consiglio di sicurezza ONU, perché dietro il mandato originario ad aprire delle indagini in Libia c’è un mandato che proviene da una sua risoluzione. Si tratterebbe di un colpo durissimo per la credibilità internazionale dell’Italia.
(Federico Ferraù)
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