Rachel Ruysch, chi era costei? Confesso che prima di vedere la grandiosa mostra ora in corso all’Alte Pinakothek di Monaco, Rachel Ruysch Nature into Art (a cura di R. Schindler, B. Ebert, A.C. Knaap; fino al 16 marzo – poi passerà al Toledo Museum of Art, per approdare infine al Museum of Fine Arts di Boston, dove chiuderà a dicembre) avrei potuto rispondere all’esclamazione manzoniana solo con il ricordo del leopardiano Frederik Ruysch, in dialogo con le sue mummie. Ed effettivamente Rachel era figlia proprio di Frederik, illustre non solo come anatomista, ma anche come botanico: e fu lui a trasmetterle l’amore per quei fiori e quelle piante ritratti poi per una vita, con infinita pazienza, in tante tele disseminate oggi per i musei d’Europa e degli Stati Uniti. E ovviamente lustro anche di tante collezioni private: i suoi capolavori possono arrivare a superare nelle aste anche i due milioni di euro. A Monaco ne sono esposti una cinquantina, accanto a un gran numero di tele di suoi contemporanei (quasi sempre specialisti di nature morte come lei) e a un nucleo significativo di opere di sua sorella, quasi una sua imitatrice, Anna.
Nata nel 1664 e scomparsa nel 1750, Rachel visse sempre a L’Aia, al tramonto del secolo d’oro della pittura olandese: Hals era scomparso nel 1666, Rembrandt nel 1669, Vermeer nel 1675. D’altronde non è con quei giganti che Ruysch può essere confrontata, quanto semmai con un maestro come Willem Kalf (1619-’93) che, come tanti suoi contemporanei, si era specializzato solo in ricchissime nature morte, dominate da elaborati oggetti del più sofisticato artigianato, piatti e vasellame preziosi, ma affollate anche di animali e altro.
Rachel apparteneva a un’epoca in cui era naturale restringere ancora di più il campo della propria ricerca artistica, e quindi lei non dipinse mai altro che fiori e frutti, accompagnati semmai da insetti o altri invertebrati. Nell’ultraspecialismo della pittura olandese tra Sei e Settecento si poteva arrivare a eccellere anche in questo modo, raggiungendo la fama. E così nel 1749 Jan van Gool andò a intervistare quella vecchissima celebrità in vista della pubblicazione della sua biografia, fonte per noi oggi di tante informazioni.
Rachel aveva sposato nel 1693 un suo collega, il pittore ritrattista Juriaen Pool, che non era né ricco né particolarmente affermato. Si trattò con ogni probabilità di un matrimonio d’amore, in cui era soprattutto lei a sostenere la famiglia, matrimonio che si rivelò poi fortunato da tanti punti di vista: tra il 1695 e il 1706 la coppia ebbe ben nove figli, e un decimo arrivò nel 1711, quando la madre aveva ormai quarantasette anni. A quell’epoca la sicurezza economica della coppia era stata ulteriormente assicurata dalla protezione di Johann Wilhelm von der Pfalz, elettore palatino, uno dei più eminenti collezionisti del tempo, che a Düsseldorf mise insieme un’eccezionale raccolta d’arte, poi confluita in quella che è oggi l’Alte Pinakothek. Molte lettere di Frederik Ruysch a Johann Wilhelm sono esposte alla mostra, e consentono di ripercorrere le manovre del padre per promuovere la carriera della figlia, nominata pittrice di corte nel 1708, con il grande privilegio di non dover lasciare l’Olanda e l’unico impegno di inviare a Düsseldorf una tela l’anno. Poi nel 1723 Rachel, Juriaen e il loro figlio George vinsero un grande premio alla lotteria di Stato, raggiungendo una tale agiatezza da permettere alla quasi sessantenne pittrice di rallentare sempre di più la sua attività.
È Van Gool a riportare che Frederick aveva incoraggiato il talento della figlia, nata in un ambiente colto e agiato, mandandola a scuola dallo specialista di fiori Willem van Aelst, anche perché le donne erano spesso considerate adatte soprattutto alla raffigurazione puntuale di fiori e insetti, come si illustra bene nella mostra di Monaco. Distinguere le prime nature morte di Ruysch da quelle del maestro sarebbe difficile, ma Rachel iniziò subito a firmare le proprie, per esteso, con una grafia elegante, orgogliosa, che pure si deve cercare con attenzione, essendo in genere tracciata contro il fondo nero dal quale emergono potentemente le immagini rigogliose di fiori e frutti. Nel corso della sua lunga e piuttosto prolifica carriera questa grande virtuosa non dipinse niente altro, non si confrontò mai con la figura umana, e sebbene nella mostra si segua un percorso cronologico, analizzando i cambiamenti stilistici, questi sono così sottili da non essere immediatamente evidenti; fortunatamente i suoi dipinti sono spesso anche datati. Negli anni ottanta, ad esempio, si capisce come Rachel subì l’influenza di Otto Marseus van Schrieck, colui che aveva dato vita a quel sotto-sotto-genere della natura morta, le raffigurazioni del sottobosco, che presto però lei abbandonò.
Ruysch raggiunse il successo con i suoi ricchissimi bouquet di fiori, in cui l’esattezza dello studio dal naturale (Frederick sottolineava all’Elettore palatino che la figlia non copiava mai la pittura degli altri, ma sempre i fiori veri) si sposa a una ricchezza ancora pienamente barocca, nella fantasmagoria dei petali di tante specie diverse. Quella di Rachel, certo, non è una pittura barocca in senso rubensiano, di tocco: Ruysch è semmai un’esponente della fijnschilderij, la «pittura fine», iper-dettagliata e lustrata, quasi di porcellana, che era nata a Leida con Gerrit Dou (1613-’75), e che a cavallo tra Sei e Settecento aveva come massimo esponente Adriaen van der Werff, altro pittore amatissimo dall’Elettore palatino.
Attraverso i rapporti familiari e diplomatici con il Granducato di Toscana – l’ultima Medici, Anna Maria Luisa, aveva sposato nel 1690 Johann Wilhelm – capolavori di Ruysch (e Van der Werff) giunsero a Firenze. D’altronde l’interesse dei Medici per la natura morta ‘scientifica’ aveva una lunga tradizione – all’inizio del Settecento, Bartolomeo Bimbi è un po’ un corrispettivo toscano di Rachel – e non a caso nella villa medicea di Poggio a Caiano è oggi ospitato un eccezionale, unico, museo della natura morta (quattro tele di Ruysch sono ora in mostra a Monaco).
Dal già citato Van Schrieck, Rachel apprese anche quella tecnica che consentiva un’imitazione sempre più minuziosa del naturale: ali di vere farfalle venivano attaccate alle tele, sulla pittura a olio ancora appiccicosa, in una miscela illusiva di arte e natura. E l’ultima sezione della mostra di Monaco è un affondo meticoloso e affascinante sui rapporti arte-scienza nell’Olanda del tempo, con la ricostruzione di un mondo fatto di migliaia di specimen collezionati e studiati da amatori e intendenti. Dopo la meraviglia iniziale, le nature morte di Ruysch obbligano sempre a una visione ravvicinata, rallentata, così come doveva essere il lavoro sulla tela della pittrice: che giustamente nei suoi ultimi capolavori non indicava più l’anno di esecuzione, ma l’età che lei aveva quando li licenziava. E davvero ci si chiede come potesse una donna di oltre ottant’anni dipingere con quell’attenzione da scienziato al microscopio.
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