Mario Bosincu, germanista dell’Universitàdi Sassari, in precedenti lavori aveva messo in luce di essere studioso di livello. La lettura della sua ultima fatica, ha confermato in noi questa impressione. Ci riferiamo al volume, Stranieri in terra straniera. Dal Romanticismo a Nietzsche, nelle librerie per la casa editrice Le Lettere (pp. 377, euro 25). Si tratta di un saggio informato, costruito su analisi filologicamente inappuntabili, che non rendono, si badi, il gesto scrittorio e ricostruttivo dell’autore mera esercitazione erudita. La scrittura è, infatti, viva, fluente e, per certi tratti, evidenzia il vivo interesse di Bosincu per le tematiche affrontate, senza che ciò pregiudichi il tratto scientifico del saggio. Il libro, rileva il germanista: «intende far luce su alcune figure esemplari dell’alterità, comparse in ambito filosofico-letterario tra la fine del Settecento e la Seconda Guerra mondiale […] perlopiù, della cultura tedesca» (p. VII). Si tratta di un excursus nel quale, muovendo dalla Romantik, Bosincu compie l’esegesi della proposta filosofico-esistenziale di Nietzsche per approdare, infine, all’interpretazione dello scritto di Friedrich Georg Jünger, Apollo, Pan, Dioniso del 1943.
Chi sono i pensatori interrogati da Bosincu? Filosofi e scrittori della Kulturkritik, degli “antimoderni”. La definizione rinvia a una assai vasta congerie di autori che scorsero nella modernità, inaugurata dall’illuminismo, un depauperamento della vita. Questi intellettuali sviluppano: «una modalità di riflessione che fa emergere i tratti patologici della modernità, […] guarda al passato premoderno […] e tratteggia l’ideale antitetico dell’uomo totale» (p. 3). Tra essi va, preliminarmente, ricordato Schiller. Questi coglie, nell’età a lui contemporanea, l’indebolirsi delle facoltà umane a esclusivo vantaggio dell’intelletto analitico, scientifico e strumentale, posto al servizio del Gestell e della ricerca dell’utile economico. L’età moderna è esperita quale epoca del ritorno dei Titani, centrata sulla “potenza” della dismisura e obliante le qualità proprie della persona, dell’individuo persuaso e conciliato con le potestates animanti il cosmo. Al medesimo tempo, gli “antimoderni” scoprono, in forza del lascito illuminista, la nostra storicità, comprendendo che l’uomo dimidiato, l’uomo a una sola dimensione della modernità, ha tratto contingente e può essere superato. Non casualmente, Nietzsche rileva che: «“il poter essere diverso” […] rientra fra gli attributi della “grandezza”» (p. 5).
Lo avevano mostrato proprio gli illuministi che, con i loro scritti, avevano realizzato una “colonizzazione dell’immaginario” modernizzante. Sarebbe risultato necessario realizzare un “contro-movimento” mirato alla creazione di una “soggettività” altra, diversa, che rintracciasse i propri paradigmi, i propri exempla nel passato medievale o nella visione del mondo ellenica. Quest’uomo utopico, giammai “utopistico” (i due termini, per chi scrive, hanno valenza non conciliabile) sarebbe stato latore della Kultur (Spengler) in contrapposizione alla decadente Zivilisation. La Romantik e tutti gli autori indagati da Bosincu, sono, per dirlo con Löwy e Sayre, latori di una visione anticapitalista ed esteticizzante, portatori di un codice esistenziale alternativo, come riconobbe Sombart, all’identità borghese. L’uomo nuovo doveva essere costruito: «per mezzo di pratiche orientate verso l’interiorità quali l’esperienza della natura e la lettura, una tecnologia del sé» (p. 13), atta a porre in essere una: «resistenza ethopoietica alla modernità» (p. 14). In tal senso agì, tra gli altri, Baudelaire, con il riferirsi al dandy, individuo capace di fare della propria esistenza un’opera d’arte, per differenziarsi dalle masse e dagli idola introdotti dalla ratio calcolante. Esempio diverso, ma non dissimile, di tale ribellione, è rintracciabile anche negli scritti e nella vita di Thoreau, nel suo ritorno alla wilderness.
Gli antimoderni di genio sono uomini soli, stranieri in terra straniera che, nell’isolamento necessario alla pratica filosofica, realizzano la metanoia, il “cambio di cuore”. Le loro opere sono “comunicazione d’esistenza” che, come sostenne Kierkegaard, non volevano rivolgersi al lettore di “Gazzette”, ma avrebbero teso a “prenderlo per il collo”, animate com’erano dall’urgenza di fargli conquistare uno sguardo epistrofico ed assoluto sulla vita. La letteratura interrogata da Bosincu è, da un alto sermo propheticus (la produzione fichtiana è in tal senso esemplare), dall’altro sermo mysticus che, stante la lezione di Maestro Eckhart, persegue lo “svuotamento” del singolo in un iter di conversione “iniziatica”, che giunge al “risveglio”, al tertium datur della coincidentia oppositorum. Modelli di tale modalità scrittoria, riferisce l’autore, possono essere rintracciati in Marco Aurelio e Petrarca. Gli exempla sono quelli tramandati da Tacito, poi testimoniati dagli Eroi di Carlyle. Gli antimoderni, quindi, si configurano quali parresiasti, intellettuali che affermano il vero nell’età del suo oblio, nell’età in cui, per dirla con Badiou, si pensa dalla fine: «Il piacere della distruzione (del moderno) è, al contempo, un piacere creativo!» (p. 103). Nietzsche, del cui pensiero viene ricostruita dettagliatamente ogni fase, sulla scorta di Feuerbach, è convinto che demolire: «l’idea di Dio […] significa […] spezzare il sortilegio che deruba del suo valore l’al di qua» (p. 103), al fine di rinnovare la “fedeltà alla terra”.
Ciò che non condividiamo della dotta ermeneutica di Bosincu è il suo giudizio sul contro-movimento degli autori indagati, che viene inscritto nella stessa logica che sorreggerebbe le tesi neo-gnostiche puritane ed illuministe (Voegelin). A nostro giudizio, gli autori di Bosincu, almeno quelli che guardano alla physis ellenica quale unica trascendenza, lo fanno nella convinzione che solo in essa (Bruno) si dia il principio, l’origine: pertanto, sono alieni da qualsivoglia prospettiva dualista e gnostica. È al dualismo cristiano che si può, di contro, imputare di covare in sé germi gnostici, chiarissimi nella svalutazione della natura e del mondo a beneficio del Perfetto, di Dio. Centrale per la comprensione di tale assunto, risulta l’ultimo capitolo del volume dedicato all’opera di Friedrich Georg Jünger. Quello jüngeriano è un “paganesimo dello spirito”, centrato sulla “fraterna antitesi” di Apollo, Pan e Dioniso. Friedrich Georg mostra di aderire a una prospettiva mitica: ritiene che in ogni ente, nell’interiorità dell’uomo e nelle sue attività, agisca un dio. Il divino è palpitante, si fa esperienza, lontano da ogni esito “wotanista”.
Per sottrarsi al dominio reificante del moderno, l’uomo deve recuperare la dimensione immaginale: solo in essa è possibile rintracciare l’alito degli dèi, l’eterna metamorfosi animica della physis. A medesime conclusioni giunsero nell’Italian Thought del Novecento Evola, Emo, Diano e Colli. Chi scrive si sente oggi straniero in terra straniera, pur essendo abbagliato, come i pensatori ricordati, dal thauma, dalla meraviglia tragica della vita.
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