Venerdì 14 febbraio 1991 moriva don Isidoro Meschi, assassinato da un giovane disagiato.
A 34 anni da quella tragica scomparsa, la Parrocchia di Sant’Ambrogio di Merate con una messa di suffragio renderà onore alla memoria del presbitero e giornalista, originario di Merate e fondatore negli anni ’80 della comunità per tossicodipendenti «Marco Riva» di Busto Arsizio, alla quale si dedicò anima e corpo fino alla sua morte, arrivata proprio per mano di una persona di cui si prendeva cura.
A 34 anni dal suo omicidio Merate ricorda don Isidoro Meschi
La celebrazione, che sarà officiata da don Mauro Malighetti, si svolgerà venerdì 14 gennaio alle 8.30 nella chiesina di San Bartolomeo. Numerose le iniziative in programma nelle prossime settimane anche a Busto Arsizio, dove ha sede l’associazione «Amici di don Isidoro», fondata nel 2007 dalla sorella Mariella.
Di seguito la biografia di don Isidoro Meschi, pubblicata sul sito dell’associazione Amici di don Isidoro:
Isidoro Meschi nasce a poche settimane dalla fine della seconda guerra mondiale, il 7 giugno del 1945, a Merate, cittadina del lecchese. Il padre Guido è molto stimato tra i suoi concittadini per l’impegno come contabile dell’ospedale e della parrocchia, attività che presta gratuitamente, e come militante della Democrazia Cristiana. La mamma Irene segue con amore la famiglia, dando alla luce, nel giro di pochi anni, altri due bambini: Giuseppe, detto Peppino, e Maria, chiamata Mariella.
A Isidoro, fin da piccolo soprannominato Lolo, Gesù si manifesta a sei anni, durante la lezione di catechismo della maestra di scuola: il bimbo se ne innamora, tanto da maturare presto, “con un fulgore da non lasciare dubbio alcuno”, il desiderio di servirlo come sacerdote. La messa del mattino prima di scuola e la recita del rosario diventano abitudini quotidiane per il piccolo Lolo, che talvolta manifesta la sua fede con gesti eclatanti: una volta, per fare un fioretto a Maria, rinuncia alla gita familiare al circo per restare in auto a pregare il rosario; in un altro caso progetta di nascondersi in chiesa per passarvi la notte in adorazione, ma il piano fallisce.
A 14 anni Lolo entra nel seminario di Seveso. Pochi mesi dopo, il padre Guido si ammala gravemente e in breve muore a soli 46 anni. La madre vorrebbe riportare Isidoro a casa con sé e con i due fratelli più piccoli, ma il ragazzo la convince a lasciarlo continuare gli studi, consapevole dell’importanza della sua missione. È così che nel 1969 Isidoro giunge all’ordinazione sacerdotale.
Il primo incarico di don Isidoro è nel seminario di Venegono Inferiore come vicerettore. Nel non facile clima di contestazione seguito al Sessantotto, con i ragazzi egli dimostra una rigorosa coerenza unita a una straordinaria capacità di comprensione e accoglienza.
Dopo tre anni, viene assegnato alla basilica di San Giovanni a Busto Arsizio, in provincia di Varese. La sua vita pastorale è piena di impegni: educatore in oratorio nei primi anni, insegnante di religione nel liceo classico cittadino, membro del consiglio presbiterale diocesano, direttore del settimanale diocesano “Luce” nell’edizione dell’Alto milanese.
Isidoro è molto apprezzato per le sue fini qualità intellettuali, ma è soprattutto sull’altare e nel confessionale che esprime il suo valore: è una guida spirituale instancabile e illuminata, le sue omelie lasciano il segno e il suo rapimento durante la celebrazione eucaristica ne rivelano la fede granitica e feconda. Nonostante i suoi molteplici impegni, infatti, Lolo è sempre pronto a visitare gli ammalati e le persone sole e a prendersi a cuore gli sbandati. Tra loro c’è anche un ragazzo psicolabile, Maurizio, che don Isidoro cerca in tutti i modi di riabilitare facendolo persino assumere nella redazione del “Luce”.
Anche il suo stile di vita ricalca i dettami evangelici: don Isidoro è astemio e si ciba solo dell’indispensabile, il suo abbigliamento è decoroso ma usurato dal tempo, all’auto preferisce la bicicletta, che usa anche per tenersi in forma, difficilmente accetta regali e rifiuta persino i caffè, tiene per sé solo il necessario e regala ai poveri tutto ciò di cui dispone: denaro, cibo, maglioni, persino il pigiama.
Negli anni Ottanta il dilagare dell’eroina tra i giovani non lo lascia indifferente: per loro apre un punto di ascolto. Poi, confidando solo sulle forze proprie e di altri volontari, ristruttura una cascina per farne il centro di recupero “Marco Riva”. Rubando il tempo al sonno, studia libri di psicologia ed elabora un metodo di riabilitazione condensato nel volume: “Dallo sballo all’empatia”, ancora oggi alla base del percorso proposto in comunità. Dialogo e lavoro sono i pilastri che riconducono i tossici, alienati da un’insensata ricerca di piacere, al recupero di volontà, capacità di relazione e di progettazione. Per dedicarsi ai ragazzi della “Marco Riva” Isidoro rinuncia senza rimpianti a prestigiosi incarichi ecclesiastici.
Ma all’inizio del 1990 un nuovo gravoso impegno si aggiunge alla lunga lista dei suoi doveri. Isidoro viene chiamato a gestire, come coadiutore, la nuova parrocchia cittadina di San Giuseppe, affidata ad un parroco anziano. Nonostante la chiesa si trovi a non molta distanza della “Marco Riva”, l’ulteriore peso della parrocchia è notevole per Isidoro, che, come sempre, accetta senza lamentarsi, in perfetto spirito di obbedienza.
L’estate seguente Isidoro si riserva alcuni giorni di ritiro personale, nonostante la sua fitta agenda lo reclami in città. Al contrario di quanto ci si aspetterebbe da lui, egli si ostina a voler partire e al suo ritorno confida agli amici più cari di aver steso il suo testamento spirituale. Da tempo profetizzava a parenti e collaboratori più stretti che sarebbe morto a 46 anni, l’età del padre.
La notte del 14 febbraio 1991 l’amico psicolabile Maurizio, geloso delle attenzioni che il sacerdote riservava agli altri bisognosi, va a cercare Lolo alla “Marco Riva” armato di coltello. Il sacerdote viene messo in guardia da una telefonata della madre del ragazzo, ma Isidoro lo affronta comunque da solo, evitando di allarmare e di mettere in pericolo gli altri. Va incontro all’amico a braccia aperte e riceve una pugnalata al cuore che gli è fatale. Don Isidoro muore all’istante, a 46 anni come aveva profetizzato. Sul viso gli appare immediatamente un sorriso di beatitudine.
Il suo testamento spirituale, presto ritrovato tra le sue carte, viene letto durante la cerimonia funebre, celebrata da 150 sacerdoti e da due vescovi e a cui partecipa una folla di circa 20mila persone. Alla messa di suffragio che l’aveva preceduta, il cardinale Carlo Maria Martini, allora arcivescovo della diocesi di Milano, aveva detto: “Sono certo che questa morte sarà un grande segno evangelico. Non è una morte come le altre, non è una semplice disgrazia, non è una semplice perdita di un prete giovane da cui speravamo molto per la diocesi, non è un semplice vuoto ma un grande segno evangelico e voi tutti che siete venuti qui, che lo avete conosciuto, lo sentite profondamente come un grande segno evangelico per un mondo distrutto dall’odio. […] E io oso affermare che questo segno non sarà solo per questa comunità, non sarà solo per la città di Busto Arsizio, sarà per tutta la diocesi, per tutto il clero. Chissà che un giorno non possa essere un segno per tutta la Chiesa e fare parte della santità della Chiesa.”.
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