“Nessuno è patriottico quando si tratta di pagare le tasse”. Tranne Trump

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Si può dire tutto, di queste prime settimane di presidenza Trump, tranne che ci si annoi. E questo vale anche in materia fiscale, visto che tra i primi atti della nuova amministrazione c’è stato il ritiro dall’accordo relativo alla Global Minimum Tax, parte (essenziale) di un progetto dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) volto a contrastare l’elusione fiscale delle multinazionali.

In estrema sintesi, e senza voler (a proposito di noia) tediare il lettore con i tecnicismi, questa imposta, confluita in un accordo sottoscritto da oltre 130 Paesi, mira in sostanza a contrastare la competizione “al ribasso” tra Stati relativa alla tassazione delle multinazionali con fatturato annuo superiore a 750 milioni di euro, e a garantire che queste ultime corrispondano una quota equa di imposte (fissata al 15%) a prescindere dal luogo in cui operano, evitando così di trasferire la gran parte dei loro utili in Stati a tassazione molto bassa o nulla.

Ma perché “the Donald” dovrebbe ritirarsi da un accordo internazionale così importante e, probabilmente, affossare l’intero progetto OCSE, se non la stessa OCSE? Il fatto è che, quando si parla di “multinazionali”, non si può prescindere dal riferirsi alle Big Tech statunitensi, ovverosia ai giganti tecnologici come ad esempio Google, Meta, Amazon, Apple, Netflix, ma non solo – e l’amministrazione USA ha fatto chiaramente intendere che non tollererà discriminazioni e penalizzazioni per le imprese americane all’estero.

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Da ciò si comprende perché, con un memorandum pubblicato qualche giorno fa sul sito della Casa Bianca, uno dei primi atti della nuova amministrazione è stato svincolarsi da un accordo internazionale che – a detta del Presidente – “non solo consente una giurisdizione extraterritoriale sui redditi statunitensi, ma limita anche la capacità della nostra Nazione di adottare politiche fiscali che tutelino gli interessi delle imprese e dei lavoratori americani. A causa di questo accordo e di altre pratiche fiscali discriminatorie adottate da paesi stranieri, le aziende statunitensi potrebbero essere soggette a regimi fiscali internazionali di ritorsione se gli Stati Uniti non si conformano agli obiettivi di politica fiscale straniera”.

In questa prospettiva, le ragioni di Trump non sembrano per nulla campate in aria, anzi. Solo che, come sempre, la questione è un po’ più complessa. Ci sono ottime ragioni per tirarsi fuori da questi accordi internazionali, ma anche ottime ragioni per dar corso agli stessi; il problema semmai è che le prime sono essenzialmente americane, mentre le seconde hanno maggiormente a che fare con l’Europa, la quale in questa vicenda però ha un “potere contrattuale” prossimo allo zero.

Per come l’amministrazione Trump descrive la questione, prescindendo ovviamente da ogni valutazione etico-morale, non si può gridare allo scandalo per il ritiro dagli accordi OCSE. Del resto, siamo noi Europei ad aver mostrato agli Americani che i trattati sono “pezzi di carta” e che “necessità non conosce legge”, anche se in tutta onestà glielo abbiamo mostrato in contesti ben più gravi, e proprio per questo ancor meno scusabili[1].

Questo perché, nella prospettiva dei vincitori delle elezioni dello scorso novembre, il Global Tax Deal è un attacco diretto agli interessi nazionali USA, e il ritiro da questi accordi è dettato essenzialmente da una visione “America first”, e non da una valutazione sull’efficacia o meno dello strumento della Global Minimum Tax – strumento che invece qualche efficacia in termini di gettito sembra averla, dato che si stima, tra l’altro, che le entrate fiscali relative all’imposta sul reddito delle società si incrementino di 155-192 miliardi di dollari all’anno, pari a un aumento compreso tra il 6,5% e l’8,1% delle attuali entrate globali di tale imposta.

Il tema riguarda il rapporto tra la tassazione e gli Stati nazionali, e da qui il richiamo del titolo a una nota frase di George Orwell. È evidente che nessuno Stato, non solo gli USA ma anche gli stessi membri dell’Unione Europea (non a caso la competenza in materia di imposte dirette è lasciata agli Stati nazionali e non è competenza stretta dell’Unione), intende delegare le politiche fiscali a organismi sovra-nazionali, con una conseguente perdita, anche minima, di controllo su una delle poche “leve” funzionanti effettivamente rimaste appannaggio della politica, come appunto la leva fiscale.

Gli Stati Uniti, semplicemente, non vogliono – se mai hanno voluto – redistribuire globalmente gli enormi profitti dei loro “giganti” economici, le corporation americane dominanti nell’economia mondiale[2]. E, mettendoci dal punto di vista dell’amministrazione USA (non solo quella di Trump, ma anche quella di Biden): perché dovrebbero farlo?

Chiarisco meglio. Il punto di vista americano, di un ipotetico “zio Sam”, potrebbe essere descritto all’incirca così: il mio governo fa di tutto per promuovere la crescita delle grandi imprese tecnologiche (e non) nel mio Paese, abbassa loro le tasse, consente loro di espandersi in giro per il mondo con condizioni favorevoli, fa di tutto (e riesce molto bene) per attrarre quanto più capitale umano e le migliori “teste” di tutto il mondo negli USA, e in tutto ciò l’Unione Europea, che non è stata in grado di far crescere una singola Big Tech in venticinque anni, che è stata impegnata a legiferare sulla curvatura massima dei cetrioli[3] o sui famigerati tappi delle bottiglie, pretende di tassare le “mie” società e di appropriarsi di una quota dei loro profitti?

Comprenderete che, vista così, la posizione di Trump acquista tutto un altro significato.  Beninteso, non stiamo dicendo che il nostro ipotetico zio Sam abbia ragione, ma è possibile che nessuno a Bruxelles si sia reso conto che questa è esattamente l’immagine che stiamo dando dell’Europa oltreoceano? Mentre la nuova amministrazione americana programma investimenti importanti in tecnologia, impone dazi e si ritira da accordi fiscali globali, del resto, noi stiamo decidendo le nuove immagini da stampare sulle banconote degli Euro[4].

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per le aziende

 

Già, l’Europa. L’aspetto curioso di questa vicenda è che le perplessità americane sulla Global Minimum Tax erano note da tempo: sarebbe errato credere che la posizione dell’attuale amministrazione americana sia in totale contrapposizione con quella a guida Biden, la quale invero aveva già manifestato le sue perplessità (eufemismo). E le perplessità non provenivano solo dagli USA: anche i Paesi emergenti si sono recentemente “rivoltati” contro questo approccio, dato che nell’ottobre del 2024, invece di implementare il modello Ocse, avevano lanciato un’ipotesi alternativa affidata all’Onu[5].

Ebbene, in questo quadro tutt’altro che chiaro, dove due degli attori principali (gli Stati Uniti e i Paesi in via di sviluppo) manifestano da tempo i loro dubbi, se non la loro aperta contrarietà, su questo meccanismo di tassazione globale, l’Unione Europea ha pensato di fare l’early adopter, ovverosia di iniziare comunque ad applicare la Global Minimum Tax grazie alla direttiva di recepimento anticipato e costringendo pertanto le multinazionali operanti in ambito Ue (oltre che in Svizzera e Regno Unito) a implementare modelli di ripartizione e di calcolo della tassazione che tuttavia si riveleranno molto difficili da applicare alle imprese statunitensi, proprio perché l’amministrazione americana considererà prive di titolo tutte le imposte trattenute sul reddito delle “sue” multinazionali[6].

Alla luce di questa situazione, non era forse più saggio attendere gli sviluppi internazionali prima di dover costringere le imprese operanti in Europa a farsi carico dell’implementazione (peraltro piuttosto onerosa) di un sistema che potrebbe essere destinato a scomparire, dato che le perplessità a livello internazionale non mancavano? Senza contare, peraltro, che, come ben rileva Raffaele Russo, le difficoltà operative e di compliance legate a questa imposta sono evidenti[7], e che “non è un segreto che tanti tax director speravano nella fine dell’‘incubo’ global minimum tax. Un ‘incubo’ che non sarebbe giustificato dal gettito aggiuntivo, mettendo quindi in discussione lo stesso rapporto costi-benefici”[8].

Alla fine, se si ritireranno gli USA e i Paesi in via di sviluppo, questo modello impositivo rischia di passare da “globale” ad “europeo”, e di costituire quindi l’ennesimo fattore di ostacolo “auto-generato” (si veda quanto è successo e sta succedendo all’industria automobilistica europea) alla competitività del Vecchio Continente nel contesto mondiale. E forse Giulio Tremonti fa bene nel suo ultimo libro a chiedersi, citando Einstein, se si possa affidare la soluzione dei problemi alle stesse teste che li hanno causati[9].

*  *  *

[1] Ci si riferisce alle note espressioni del cancelliere tedesco Theobald von Bethmann-Hollweg, riferite ai trattati di garanzia della neutralità del Belgio, accordi che la Germania violò apertamente nella Prima guerra mondiale con l’invasione del territorio belga.

[2] Cfr. P. Bernasconi, A. Galimberti, Arriva lo strappo definitivo: sulle tasse l’America va da sola, Il Sole 24 Ore, 29 gennaio 2025.

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[3] Non è uno scherzo: fino a poco tempo fa erano in vigore norme che prevedevano che un cetriolo dovesse avere una curvatura massima di 10 millimetri su una lunghezza di 10 centimetri. Si veda C. Colli, Le norme assurde dell’Europa che fanno arrabbiare gli agricoltori, Panorama.it, 2 febbraio 2024.

[4] Nemmeno questo è uno scherzo: si veda https://www.ecb.europa.eu/euro/banknotes/future_banknotes/html/index.it.html

[5] Cfr. A. Galimberti, La Global minimum tax europea nel mirino del nuovo ordine Usa, Il Sole 24 ore, 23 gennaio 2025.

[6] Ibidem.

[7] R. Russo, Perché è necessaria un’agenzia tributaria a misura di Europa, Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2025

[8] R. Russo, Finisce il sogno di una fiscalità condivisa, Il Sole 24 Ore, 29 gennaio 2025

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Agricoltura

 

[9] G. Tremonti, Guerra o Pace, Solferino, 56.

Alberto Franco



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