Tutta la verità sul Jobs Act: contratti in crescita, meno autonomi. E ora arriva il referendum

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di
Luca Romano

I dati Inps certificano che tra il 2014 e il 2023 i lavoratori dipendenti privati sono aumentati del 17% (anche quelli a tempo determinato). I licenziamenti? Molte di più le dimissioni volontarie

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Un colpo d’occhio puramente statistico sull’ultimo decennio del mercato del lavoro del Veneto può aiutare a capire i processi in corso. Ma è tutt’altro che in grado di legittimare un’interpretazione univoca rispetto a quello che è successo. I numeri dicono qualcosa, ma non sono neutri e allo stesso tempo non prevengono delle inevitabili arbitrarietà. E tale è proprio la scelta di adottare come data spartiacque l’introduzione del Jobs Act, decreto n. 23 del 4 marzo 2015. Ciò al fine di capire che effetti ha prodotto sul mercato del lavoro un provvedimento su cui si svolgono infuocate narrazioni opposte, tanto da sfociare in un prossimo referendum abrogativo.
Ragionare sui dati è utile, anche quando non corrispondono alle immagini che ci siamo costruiti sul fenomeno indagato. Del Jobs Act, nella fase dell’applicazione iniziale, tra le altre cose, quali effetti si potevano presumere? Un innalzamento verticale dei licenziamenti dopo l’abrogazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori? Un processo di spostamento dai contratti a tempo indeterminato a quello determinato, nel senso di una maggiore precarizzazione? Una crescita delle assunzioni a tempo indeterminato spinte dagli incentivi? Una più estesa protezione in caso di perdita del lavoro in virtù dell’universalizzazione degli ammortizzatori? La forma interrogativa è indispensabile come precauzione prudenziale, in quanto dai numeri non arrivano delle risposte univoche, alcune sono ambivalenti, altre sfuggenti.

Com’era prima

Nella fase precedente il Jobs Act, con l’andamento tutt’altro che brillante dell’economia, investita dalla morsa tra le crisi del 2009 e del 2013, i lavoratori dipendenti dei settori privati a tempo indeterminato erano diminuiti tra il 2008 e il 2014 di 70.000 unità (fonte: Inps). Le dinamiche del mercato del lavoro sono estremamente sensibili a quelle dell’economia e inevitabilmente, nelle fasi difficoltose, prevalgono gli istinti difensivi suffragati dalla norma a difesa del posto di lavoro. Ma la norma non incide sulla domanda complessiva di lavoro, può rallentarne la distruzione in un contesto recessivo, non certo crearne. La correlazione tra andamento dell’economia e dinamicità del mercato del lavoro ha un’intensità ciclicamente mutevole e quando il Jobs Act entra in vigore il clima economico generale dà segni di miglioramento.




















































La serie positiva

Le statistiche dell’ultimo decennio (2015–2024) che cosa ci dicono?
Il primo dato di rilievo riguarda i contratti a tempo indeterminato per tutte le assunzioni realizzate nei settori privati (agricoltura, industria e terziario). Dopo un 2016 negativo (-34%), nel primo anno completo in cui la nuova legge è pienamente in vigore, questi contratti crescono ininterrottamente fino al 2023, con unica eccezione l’annus horribilis 2020 del lockdown da Covid. Nel 2022 questa crescita ostenta una particolare brillantezza (+21%). In questa serie il 2022, chiaramente per il traino del grande rimbalzo post Covid segna l’anno record in tutti i settori ma in particolare per l’industria (+31%), molto positivi anche l’agricoltura (+ 21%) e i servizi (+ 15%). I valori dell’industria sono molto significativi perché è il macrosettore economico in cui in termini assoluti i contratti a tempo indeterminato sono in una numerosità molto consistente, in rapporto di 1 a 2 con le assunzioni a tempo determinato. Questo rapporto nei servizi oscilla tra 1 a 4 e 1 a 5. In agricoltura i contratti a tempo indeterminato tradizionalmente rappresentano un numero irrisorio rispetto agli stagionali.

E i licenziamenti?

La narrazione sul Jobs Act riguarda il tema dei licenziamenti. Che cosa accade senza l’articolo 18? Il cambiamento del contesto economico generale ha un’incidenza molto significativa anche su questo aspetto. Se analizziamo il 2022, come abbiamo visto un anno positivo, in Veneto si verificano 853.060 cessazioni di rapporti di lavoro. Di queste, al netto delle 532.000 dovute alla fine del contratto, la componente più significativa consiste nelle «famose» dimissioni volontarie dei dipendenti (232.365), mentre i licenziamenti veri e propri sono circa l’8% del totale delle cessazioni, meno di 70.000. Nello stesso decennio che cosa accade per i contratti a tempo determinato? Anch’essi sono in espansione ma con un trend di crescita percentuale inferiore ai contratti a tempo indeterminato. L’impatto del Jobs Act in questo caso è limitato nel tempo, perché a soli tre anni di distanza, la legge 96 del 9 agosto 2018, che converte il cosiddetto «Decreto Dignità», ha l’obiettivo di rivedere completamente l’indirizzo, reputando che la flessibilità disegnata dal Jobs Act sia generatrice di vera e propria precarietà nei rapporti di lavoro.

Il Decreto Dignità

Per questo cambio di strategia delle politiche del lavoro il decreto rende più selettivo e disincentivante il ricorso ai contratti a tempo determinato. Li ammette con una durata massima che si riduce da 36 a 24 mesi, i rinnovi possibili da 5 a 4, al massimo 4 proroghe con, dopo, obbligo di assunzione, causali di assunzioni obbligatorie e ammissibili per esigenze temporanee e oggettive, che costituiscano un’anomalia nell’ordinaria attività lavorativa, per esigenze di sostituzione di altri lavoratori, per esigenze correlate e incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria.

I contratti a termine

Ci si poteva aspettare, come effetto di questa nuova regolazione legislativa disincentivante, una riduzione strutturale del numero di contratti a tempo determinato. Questi, in realtà, sempre a prescindere dall’anomalo 2020, dopo una riduzione irrisoria (-3%) nel 2019, sono tornati a espandersi dopo il 2021 in modo molto consistente. La durata di questo provvedimento si è fermata al giugno 2023: con l’approvazione del nuovo Decreto Lavoro dell’attuale governo (ministro Marina Elvira Calderone), si allenta di nuovo la stretta sui contratti a termine voluta dal Decreto Dignità. È del tutto evidente che il contratto a tempo determinato è un elemento particolarmente sensibile e tormentato della legislazione giuslavoristica.

Il trend di crescita

Tornando alla fonte da cui siamo partiti, l’Inps, tra il 2014 e il 2023 i lavoratori dipendenti privati registrati con un contratto a tempo indeterminato passano da 1.124.946 a 1.317.082, con un aumento del 17,1% di quasi 200.000 unità. Pertanto, dopo l’introduzione del Jobs Act il trend di crescita del tempo indeterminato è stato confermato fino all’inizio di una nuova turbolenza negativa del ciclo economico, che ha cominciato a manifestarsi alla fine del 2023. Nello stesso decennio il trend di crescita ha riguardato anche i contratti a tempo determinato e ciò è avvenuto anche a dispetto di dispositivi normativi rivolti a contrastarli. Questo incremento in parallelo di lavoratori e lavoratrici a tempo indeterminato e determinato rimanda a un repertorio di fattori che in modo approssimativo possiamo definire «interni» al mercato del lavoro. Si è elevata l’asticella dei lavoratori dipendenti in generale, perché si è alzato il tasso di occupazione complessivo a livelli che hanno frantumato un record dopo l’altro. Non solo in Veneto ma anche in Italia. Inoltre si è verificato un passaggio piuttosto consistente dal lavoro autonomo al lavoro dipendente: si pensi che prima di questo decennio, in Veneto, la componente di lavoratori autonomi riguardava il profilo del 28% del totale dei lavoratori e si è ridotta al 20%. Infine, un aspetto non sempre ricordato è l’effetto di allungamento della vita lavorativa derivante dalle riforme pensionistiche del 2012 che interessano le generazioni più numerose dei baby boomer. Infatti, la fascia generazionale il cui tasso di occupazione è aumentato maggiormente è proprio quella degli over 55 anni.

Scossa demografica

Questo fitto scenario di interrelazioni riceve un’ulteriore scossa che si chiama demografia. Incide in due modi molto significativi: con il rapprendimento del ricambio generazionale per la diminuzione quantitativa netta di giovani; con l’ampliamento della platea dei «pensionandi». Si percepiscono molteplici segnali di questo deficit quantitativo di persone, dalla riduzione di servizi alla chiusura di attività prive di ricambio generazionale. Tutti i settori sono alla ricerca di personale in un orizzonte di iper modernizzazione tecnologica che fa da sfondo, diffondendo le paure di disoccupazione da Intelligenza Artificiale e da arretramento dell’industria europea nella morsa USA – Cina. E di «invasione» degli stranieri, che pure rappresentano l’unica soluzione al deficit demografico.

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Il senso del lavoro

Questo è un tempo in cui la domanda su «quanto» lavoro ha regolato la bussola dei cambiamenti normativi e delle politiche del lavoro è imperiosamente sostituita da un’altra o da altre domande: sul senso del lavoro, sulla relazione tra la formazione e la qualità del lavoro, sul valore economico e il rispetto dei diritti del lavoro. Si tratta di un focus che la nuova generazione ha anticipato in modo imprevedibile ma che sta scatenando un tornado difficilmente leggibile nelle austere griglie delle tabelle statistiche

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10 febbraio 2025 ( modifica il 10 febbraio 2025 | 14:01)

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