Contro l’eccesso di lavoro | NAZIONE INDIANA

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di Daniele Muriano

C’è oggi una consapevolezza strisciante che riguarda l’eccesso di lavoro in circolazione, e viene dalla pandemia e dallo smart working: sempre più persone, con argomenti diversi e sensibilità non comunicabili, stanno misurando con la loro pelle il potenziale affettivo-effettivo del tempo libero (pur nella consapevolezza che il tempo libero è una truffa, come sosteneva Adorno: è una truffa, perché è il pallido riflesso del tempo lavorativo, e meglio di Adorno lo sa la signora Emma che lavora in cassa nel supermercato di una famosissima catena, vicino casa mia, a Milano sud, che mi racconta di lavorare 12 ore in un giorno, più pausa pranzo, ed eventuale straordinario; per poi restare a casa il giorno successivo, che serve semplicemente a riprendersi dalla fatica, per poi ripartire l’indomani con le 12 ore, e così via). Lo smart working, si diceva. Sì, perché la consapevolezza è spirata da questa innovazione. Che all’inizio il Capitale ha abbracciato con gioia e bacetti sulle guance, perché si trattava in fondo di colonizzare l’ambiente domestico ancor di più, di compenetrare intimità e senso del dovere, con enormi speranze produttive. Ma è esattamente attraverso lo smart working che molte persone hanno avuto modo di pesare il “tempo libero” in senso pratico e non solo fantasioso, risparmiando ore di vita prima impiegate sui mezzi pubblici affollati o in treni sonnacchiosi. Non è un caso che dopo l’iniziale benedizione, lo smart working si stia riducendo (laddove non è produttivo per l’azienda, dove insomma non serve per risparmiare sul costo delle strutture e dei luoghi di lavoro); Elon Musk, per dirne uno a caso, ritiene lo smart working alla stregua di un vizio, se non serve al datore di lavoro: un problema morale. È il caso emblematico di un “re della telematica” contro le innovazioni della telematica.

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La consapevolezza strisciante a cui alludevo, dove si comincia a usmare collettivamente una certa libertà, o al contrario una certa oppressione (se lo smart working diventa totalizzante e occupa addirittura più tempo e spazio interiore del lavoro in ufficio, e questo è il rovescio della stessa medaglia), è circostanza fortuita che andrebbe cavalcata. Ma esiste la sinistra? Esiste una politica che non sia confermativa?

Per il gusto di essere antipatico, quando entro nell’orbita di chi – da sinistra – ha digerito male Marx, io dico che a Marx preferisco il di lui genero, Paul Lafargue: autore dell’Elogio dell’ozio, bestemmiatore del “dogma del lavoro”, andrebbe riletto per contaminare un certo entusiasmo sregolato che da sinistra si imprime al lavoro di per sé – non quanto ai sacrosanti diritti dei lavoratori. Il marito di Laura Marx, Paul Lafargue, è anche padre (a)spirituale di molto pensiero novecentesco contro il lavoro: individua nella passione per il lavoro in sé (indipendentemente dagli scopi, dai desideri di ciascuno) una spinta verso gigantesche miserie sociali e individuali.

Certo, il rivoluzionario Lafargue poggiava i piedi nell’Ottocento, all’ombra nascente della seconda rivoluzione industriale, e parlava da un mondo dove il lavoro era ben altra cosa: eppure quegli argomenti parlano anche al nostro mondo sorridente e un sacco smart. Perché mai?

Non è difficile rendersi conto che, in questo nuovo vecchio secolo, l’eccesso di lavoro è un pericolo per le democrazie, e non solo un’aberrazione sotto i più immaginabili punti di vista. Che le democrazie siano gravemente ammalate, qualunque cosa si intenda con questo, è sotto gli occhi di tutti. Anche sotto quelli di chi nega – con argomenti a volte comprensibili – che viviamo effettivamente in regimi democratici.

La questione è semplice, inizialmente. Il mondo è sempre più complesso, sempre più incomprensibile, dice l’esperienza comune. Perché il mondo è fatto in larga parte di informazioni: certo, esiste il mondo pratico e vitale come l’universo affettivo (per chi può permetterselo), e ci sono un sacco di cose che possiamo toccare. Ma il resto è informazione. A quanto pare noi viviamo in tempi di infodemia, parola recente almeno quanto il problema che vorrebbe designare (anche se a volte quelli che la utilizzano sono il problema). Dobbiamo sapere troppe cose, perché dobbiamo vagliare troppe informazioni. Siamo cretini? No, non siamo cretini. Ma abbiamo poco tempo. Pochissimo tempo. Il sistema mediatico ne approfitta. E propone un’offerta disegnata per chi ha poco tempo, per chi non può verificare il valore di verità delle affermazioni più surrettizie, delle cretinate circolanti. E cosa si fa? Si beve tutto, o si sorseggia timidamente il drink delle informazioni. E poi? Si vota. O non si vota. Ma il risultato non cambia, pare.

A queste condizioni, noi cittadini di un mondo che non si comprende, è possibile organizzarsi per cambiare le cose? Dal basso. Ma in che modo? Proteste d’antan, ingenuità strutturale, violenza senza capo né coda, boicottaggi inutili, dichiarazioni di rabbia – cosa possiamo fare? Poco o niente. Non c’è tempo per sapere. Non c’è tempo per informare. Non c’è tempo.

Partito del tempo dovrebbe chiamarsi l’unico partito senz’altro di sinistra e sinceramente democratico. È da lì che è necessario partire. Ma metto da parte la boutade, o almeno ci provo.

Quasi sempre, parlando con la “gente che lavora” di ciò che succede nel mondo (dalla guerra in Ucraina al conflitto israelo-palestinese, ma anche Cina, India, o Nordafrica), non appena si scende un po’ di profondità culturale, arriva la protesta: “Ma io come faccio a sapere di queste cose? Non ho tempo. Devo lavorare, non posso sapere chi sono i cinesi, o gli israeliani, o gli ucraini, o gli egiziani, a mala pena so chi sono gli italiani”. Vale lo stesso per i meccanismi fondamentali dell’economia, per la conoscenza minima di un periodo storico, e per la cultura politica necessaria a organizzare un eventuale dissenso. Di fronte alla complessità del mondo, e alla complessità dell’informazione che fa il mondo, il lavoratore medio è esautorato. Dalla democrazia. Va bene, può ancora votare, ma è un elettore vuoto (o pieno degli omogeneizzati politici e culturali che sono diventati gli articoli o i contenuti giornalistici, la gran parte di essi – il cosiddetto mainstream, in opposizione a una galassia di controinformazione dove non ci si può orientare di fretta, senza prendere abbagli). Per essere un elettore pieno, sazio di informazioni, il cittadino ha bisogno di tempo, molto tempo. Il Partito del tempo, certo, e sono ricaduto nella boutade.

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Ovviamente suona ridicolo, ne sono consapevole. Ma non perché sia ridicolo. L’etica del lavoro-per-il lavoro ha reso ridicolo il tempo libero da intendersi come ozio, e lo ha venduto a chi pagava peggio, lo ha sterilizzato politicamente. Per questo pretenderlo, e in modo più che serio, è diventato ridicolo. È da ridere perciò anche la proposta politica più sensata: un reddito universale democratico.

Se regali ai cittadini più tempo, non è detto che mangino brioche. Cioè non è sicuro che il tempo mancante per essere compiutamente cittadini (la pancia piena di informazioni) venga riempito proprio da tutti in maniera virtuosa. Ciascuno con il tempo fa ciò che vuole. Come ciascuno del sistema sanitario nazionale fa ciò che vuole. Non è mica obbligato a curarsi. Non deve far prevenzione per forza, o per legge. Usa il welfare in generale come può – vale a dire come vuole.

Un reddito universale democratico è una forma di welfare, e un’assicurazione contro la deriva apolitica della politica. Fornire a chi lo richiede, indistintamente, senza precondizioni, il minimo indispensabile per la sopravvivenza, è cosa vecchia, ultra detta e marginalmente sperimentata. L’hanno sviluppata teoricamente in tanti, e non bisogna leggere obbligatoriamente con amore André Gorz o abbracciare entusiasti Smircek e Williams e il loro accelerazionismo (di sinistra), per andare in brodo di giuggiole. Basta un pizzico di immaginazione.

Tra l’altro, la proposta di un reddito universale (anche se non concepito come democratico), non è una prerogativa di gente terrificante e brutta, anti-capitalista, che ha per incubo il neoliberismo. Hanno sposato la causa di un reddito di base per tutti anche economisti neoliberali – sebbene in alternativa al welfare, quindi molto male anzi malissimo. Ora non c’è tempo o spazio qui per fare la storia di questa proposta, né per discuterne la fattibilità futura. Che esiste. Il punto è un altro, ragionevolmente.

È in questione l’orizzonte, c’entrano le stelle verso le quali orientarsi nella notte. Si condivide l’approccio? È vero che il disorientamento politico ha molto da spartire con la scarsa capacità di comprendere il mondo? Che la complessità del mondo (ovvero delle sue informazioni) chiede più tempo che in passato? Se non si accetta la verità contenuta in queste domande retoriche, si hanno speranze di carriera e di affermazione individuale. Evviva, auguri. Quando si condivide invece la necessità politica di un Partito del tempo, allora bisogna uscire dallo scherzo, e pensare seriamente.

La maggior parte dei critici del lavoro muove guerra al capitalismo, e al neoliberismo. Ed è sensato, legittimo. Ma la maggior parte dei cittadini non sa nemmeno cosa sia il neoliberismo, e “capitalismo” viene letta come una parola d’ordine per iniziati alla marginalità politica. Invece, la democrazia sanno tutti cos’è. Certamente, magari in tanti non ne riconoscono le cadute, o non sanno definirla precisamente (ma chi ne è capace davvero senza contraddirsi per un attimo?)

Che la democrazia richieda tempo, è uno slogan semplice. Che essere compiutamente cittadini chieda tempo, è altrettanto semplice da capire. La democrazia è anche il tempo, senza il quale semplicemente scompare.

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I cittadini che ricevano un reddito universale democratico (il minimo per sopravvivere), e che possano quindi scegliere quanto tempo dedicare al lavoro piuttosto che lavorare per quasi tutto il loro tempo da svegli, potranno svegliarsi alla politica. Se lo vorranno. E comunque avranno tempo per capire, per situarsi. È la storia di cittadini che diventano cittadini. E questo è il minimo dei prezzi, se è vero che la democrazia ha un costo.

Non affronto in questa limitata sede gli effetti che una misura simile avrebbe sul sistema economico e sul mondo del lavoro. Quanto alla fattibilità in un futuro non troppo lontano, è evidente che i maggiori ostacoli risiedano in una certa densità culturale, animata forse qui e là da residui teologici. Ricordo inoltre che ci troviamo nel territorio dell’imprevedibile. L’intelligenza artificiale è tra noi; fino a dieci anni fa nulla di ciò che sta accadendo in questo campo era prevedibile esattamente. Il futuro è politicamente nero come la notte, sì: soprattutto perché non ci sono stelle verso le quali orientarsi. E allora costruiamole, ciascuno nel proprio possibile. Questa è una di quelle.

 

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