Il Myanmar a quattro anni dal colpo di Stato –

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La crisi che coinvolge il paese del Sud-est asiatico dal febbraio 2021 sembra ancora ben lontana da una soluzione che metta d’accordo tutte le parti interessate.

Il 1° febbraio 2021 i cittadini della capitale del Myanmar Naypyidaw si svegliarono con le immagini dei carri armati che occupavano le strade della città, dando inizio al colpo di Stato militare nel paese, guidato dal generale Min Aung Hlaing. L’esercito rovesciò così il governo della National League for Democracy di Aung San Suu Kyi, riconfermato al potere solo pochi mesi prima, nel novembre 2020, in un voto il cui esito, secondo i militari, era stato frutto di gravi brogli elettorali.

In seguito al colpo di Stato, esplosero violente proteste in tutto il paese, incontrando una sanguinosa repressione da parte delle autorità. Nel tentativo di contrastare i militari, nacque anche una resistenza armata, suddivisa tra le milizie del National Unity Government (NUG), formato da ex esponenti del governo di Aung San Suu Kyi ed ex parlamentari del suo partito, ed altre milizie etniche, che erano già impegnate da decenni nella lotta contro il governo centrale birmano.

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Nei quattro anni trascorsi da allora, il Myanmar è precipitato in una devastante guerra civile che ha mietuto finora oltre 6.000 vittime civili e portato all’arresto di un numero di persone che si stima sia tra le 20.000 e le 30.000. Il conflitto ha, inoltre, provocato una catastrofica crisi umanitaria, con circa 3.5 milioni di sfollati interni e più di un terzo della popolazione, poco meno di 20 milioni di persone, che ha urgente bisogno di assistenza.

La situazione ha subìto un ulteriore peggioramento a partire dall’ottobre 2023, quando la cosiddetta “Brotherhood Alliance”, nata dall’unione di varie fazioni opposte alla giunta, ha lanciato l’operazione 1027, conseguendo importanti conquiste territoriali ai danni dei militari, in particolare nelle regioni nordoccidentali e nordorientali. Se, fino a quel momento, il dominio militare appariva incontrastato, da allora la giunta del generale Min Aung Hlaing ha visto vacillare il proprio controllo.

Lo scorso 31 gennaio, la giunta ha prorogato ancora una volta lo stato d’emergenza per altri sei mesi, allo scopo di favorire il processo di organizzazione delle nuove elezioni. Queste avrebbero dovuto tenersi già nel 2024, ma erano state rimandate dal governo militare in attesa che venisse portato a termine il nuovo censimento, che è stato concluso a dicembre. Tuttavia, le forze di opposizione hanno già dichiarato la loro intenzione di boicottare il voto, dal momento che non esiste alcuna garanzia di libertà o di equità e che i dati elettorali raccolti sono del tutto inattendibili.

Invero, il censimento condotto dai rappresentanti della giunta militare avrebbe escluso ampie porzioni di territorio birmano e coprirebbe appena 145 delle 330 circoscrizioni totali del paese. I dati sarebbero dunque incompleti, oltre ad essere stati ottenuti con l’uso della violenza; in aggiunta, ciò sarebbe la dimostrazione che i militari controllano ormai meno della metà del Myanmar. Dal canto suo, la giunta ha invece enfatizzato la tenuta del censimento come un grande successo e un segnale del consenso di cui godrebbe tra la popolazione, che avrebbe collaborato entusiasticamente. 

Laddove le elezioni avessero davvero luogo una volta cessato lo stato di emergenza, sarebbe difficile prevedere un esito che possa essere ritenuto accettabile, poiché il voto si svolgerebbe, nella migliore delle ipotesi, in neanche la metà delle circoscrizioni, ovvero quelle di cui sono stati raccolti i dati, e senza la partecipazione delle opposizioni; di conseguenza, i candidati sostenuti dalla giunta sarebbero sostanzialmente gli unici in corsa e questo confermerebbe i sospetti di chi sostiene che il voto sia, in realtà, nient’altro che un modo per legittimare la permanenza al potere dei militari.

Sul fronte diplomatico, si sono rivelati vani i tentativi di mediazione compiuti dall’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN), di cui il Myanmar è membro. In origine, il blocco regionale presentò un piano di cinque punti, il cosiddetto “Five-Point Consensus”, in cui si sollecitava la giunta e le altre parti in causa a mettere fine alle atrocità contro i civili. I militari, però, non hanno mai rispettato tale piano, il che ha causato una certa insofferenza da parte di taluni membri dell’ASEAN, portando alla scelta di bandire gli esponenti della giunta dai Summit dell’Associazione.

Si sono registrate altresì molteplici divisioni tra gli Stati membri in merito al metodo più efficace per giungere ad una risoluzione della crisi. Alcuni, come l’Indonesia, la Thailandia e le Filippine, infatti, sostengono che bisognerebbe adottare un approccio più intransigente nei confronti della giunta, così da costringerla a un compromesso e coinvolgere al contempo anche il NUG, mentre altri, quali Laos e Cambogia, si rifiutano di aprire un dialogo con quest’ultimo e dimostrano una posizione molto più tollerante nei confronti della giunta. 

Nel 2025 la presidenza di turno spetta alla Malaysia, la quale in passato ha tenuto un atteggiamento piuttosto defilato relativamente agli sforzi diplomatici per una risoluzione della crisi. Ciononostante, pare che adesso il paese voglia avere maggior voce in capitolo e assumere una posizione più incisiva. Segnali in questo senso sono giunti dalla nomina dell’ex diplomatico Othman Hashim come inviato speciale in Myanmar; si prevede che egli si recherà al più presto nel paese per convincere tutte le parti a aderire al “Five-Point Consensus”.

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In una dichiarazione del 19 gennaio rilasciata in occasione del Summit dei ministri degli esteri degli Stati membri dell’ASEAN, inoltre, l’Associazione ha criticato l’intenzione della giunta di svolgere le elezioni, sostenendo che esse non abbiano la priorità. L’obiettivo principale dovrebbe essere, in effetti, quello di avviare il dialogo con l’opposizione, porre fine alle ostilità e ripristinare la pace in Myanmar immediatamente, consentendo un accesso senza impedimenti agli aiuti umanitari. 

Il ministro degli esteri malese Mohamad Hasan ha affermato, peraltro, che se le elezioni dovessero avere luogo, esse dovrebbero essere inclusive e coinvolgere tutte le parti in causa, scenario che risulta ben lontano dalla realtà. La crisi in Myanmar è stata individuata come un possibile punto di rottura dell’ASEAN, reputata incapace di costituire un fronte coeso per salvaguardare la stabilità regionale, ossia quello che dovrebbe essere il suo fine primario. È necessario che il blocco proceda speditamente verso una rapida risoluzione per scongiurare un’ulteriore erosione della sua centralità.

Il rischio che l’ASEAN possa essere marginalizzata in un processo che, al contrario, dovrebbe vederla protagonista è percepito come ancor più concreto in virtù del ruolo crescente della Cina nel contesto della crisi birmana. Pechino è stata profondamente allarmata dalla situazione volatile lungo il confine con il Myanmar, teatro di scontri sanguinosi tra forze della giunta e milizie etniche della “Brotherhood Alliance”, che mettono a repentaglio gli interessi economici cinesi nell’area.

In questo senso, la Cina ha mantenuto una posizione alquanto ambivalente nei confronti delle parti in campo; mentre nei primi tempi dopo il colpo di Stato, Pechino è stata la più convinta sostenitrice e il principale partner della giunta a livello internazionale, dopo l’avvio dell’operazione 1027, essa ha cominciato a interloquire con entrambi gli schieramenti, avviando dei contatti anche con le forze dell’opposizione che operano nella zona di confine. 

La Cina, infatti, ha tutto l’interesse affinché cessino le ostilità ed è proprio a questo scopo che essa si  è assunta il compito di fare da mediatrice tra la giunta militare birmana e le milizie della “Brotherhood Alliance”, annunciando lo scorso gennaio il raggiungimento di un cessate il fuoco tra il governo e due componenti dell’alleanza, il “Myanmar National Democratic Alliance Army” (MNDAA) e il “Ta’ang National Liberation Army” (TNLA), che hanno conquistato vaste porzioni di territorio al confine con la Cina; entrambi si sono detti disposti a dialogare con la giunta sotto gli auspici cinesi.

Sebbene l’iniziativa sia stata esaltata da Pechino come un successo diplomatico, va sottolineato che non si tratta della prima di questo genere. Già nel gennaio 2024 la Cina aveva provato a mediare un cessate il fuoco, che era stato però disatteso da ambo le parti; bisogna, dunque, aspettare per vedere se questa volta si otterrà una cessazione definitiva dei combattimenti, oppure se si tratterà nuovamente dell’ennesima tregua effimera destinata a una breve durata.

Come si può notare, una risoluzione della crisi in Myanmar si presenta sempre più imprescindibile e improrogabile, in quanto non riguarda solo il paese in questione, bensì anche i suoi vicini regionali, i quali sono coinvolti a vari livelli. In primis, il conflitto ha spinto ingenti flussi di migranti verso gli Stati confinanti; in secondo luogo, il caos birmano ha fatto sì che il paese diventasse un terreno fertile per l’attività del crimine organizzato, responsabile soprattutto del traffico delle armi e del commercio transnazionale di sostanze stupefacenti; infine, gli interessi economici dei paesi che in passato hanno realizzato grossi investimenti in Myanmar, come appunto la Cina, sono fortemente a rischio.

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È giunto, pertanto, il momento che tutti gli attori interessati, sia interni che esteri, si impegnino con la massima forza e serietà per porre fine alla guerra civile, dare il via ad un processo di risoluzione politica del conflitto, alleviare la crisi economica e umanitaria, nonché contribuire al rafforzamento della stabilità regionale. Se la crisi in Myanmar non verrà fermata e subirà un ulteriore aggravamento, le ripercussioni si avvertiranno nettamente sia nel paese che all’infuori dei suoi confini.



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