Il Parlamento e le armi

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Dall’11 febbraio è in discussione alla Camera, dopo l’approvazione al Senato, il disegno di legge di iniziativa governativa di rivisitazione della legge 185/90 che regola il commercio delle armi dall’Italia all’estero. L’intervista a Gianni Alioti – attivista di The Weapon Watch – è curata da Giordano Cavallari.

  • Caro Gianni, ci ricordi come è nata la legge 185/90?

Senza l’azione diretta e l’ampia mobilitazione di settori della società civile, del mondo ecclesiale, dell’associazionismo cattolico, dei missionari e del sindacalismo, non avremmo avuto nel nostro Paese una legislazione rigorosa e trasparente per il controllo del commercio di armi. Ci saremmo tenuti, chissà per quanto tempo ancora, il Regio Decreto n. 1161 del 1941 firmato da Mussolini, Ciano, Teruzzi e Grandi, che sottoponendo l’intera materia al “segreto di Stato”, l’avrebbe sottratta ad ogni controllo democratico.

Decisiva, per l’approvazione della L.185/90, fu la campagna “contro i mercanti di morte” lanciata a inizio del 1986. L’incipit dell’appello “armi italiane uccidono in tutto il mondo”, faceva proprie le denunce provenienti dalle missioni cattoliche in Africa, in Asia, in America Latina.

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Il comitato promotore era composto da 4 realtà: Acli, Mani tese, Pax Christi e Missione oggi. In pochissimo tempo si allargò a diverse centinaia di associazioni e movimenti. Anche il mio sindacato, la Fim-Cisl, partecipò alla campagna in continuità con il lavoro portato avanti dalla FLM, sin dal 1976, di contrasto all’export di armamenti italiani verso i regimi militari di Argentina e Cile, verso il Sud Africa e la Rhodesia dell’apartheid, verso il Congo del dittatore Mobuto, il Marocco della repressione del popolo saharawi e verso altri Paesi in guerra: a volte con una sorta di “ecumenismo” degli affari, cioè vendendo armi a tutte le parti in conflitto, come nella guerra tra Iraq e Iran.

Traffici – a volte illeciti – coinvolsero in uno scandalo internazionale i vertici della Banca Nazionale del Lavoro.

  •  Quali erano i capisaldi essenziali della legge?

In primo luogo, la fine del “segreto di Stato” sull’importazione, esportazione e transito di materiali d’armamento, attraverso l’obbligo della presidenza del Consiglio di presentare una completa e dettagliata relazione annuale al Parlamento, accessibile a chiunque.

In secondo luogo, l’introduzione di specifiche procedure e modalità di controllo – gestite dal Governo – per il rilascio alle aziende delle autorizzazioni della vendita all’estero e della destinazione finale delle armi. Il tutto conformemente alla politica estera e di difesa dello Stato «secondo i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

Da qui una precisa serie di divieti (art.1) a esportare armi verso:

  1. Paesi in stato di conflitto armato, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali o diverse deliberazioni del Consiglio dei Ministri, da adottare previo parere delle Camere;
  2. Paesi la cui politica contrasti con l’articolo 11 della Costituzione italiana;
  3. Paesi sotto embargo totale o parziale delle forniture belliche da parte dell’ONU o dell’UE;
  4. Paesi responsabili di accertate gravi violazioni alle Convenzioni sui diritti umani;
  5. Paesi che, ricevendo aiuti dall’Italia, destinino al proprio bilancio militare risorse eccedenti le esigenze di Difesa del Paese.

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  • Ora è in discussione la riforma di questa legge per iniziativa governativa. Cosa vuole il Governo?

Purtroppo le modifiche volute dalla maggioranza di Governo alla L.185/90 sono in dirittura di arrivo. L’11 febbraio, le Commissioni congiunte Esteri e Difesa della Camera dei Deputati voteranno il disegno di legge già approvato al Senato.

È da almeno un quarto di secolo che la lobby dei fabbricanti di armi “si strappa le vesti” per i vincoli di controllo e la trasparenza imposta dalla normativa. Ciò nonostante, gli affari dell’industria militare italiana, che esporta il 70-80% delle armi prodotte, vadano a gonfie vele.

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Non è un caso che le modifiche si concentrino sui contenuti e sulla tempistica della relazione al Parlamento e sull’abrogazione di diverse disposizioni, in particolare sull’attività degli istituti di credito operanti nel territorio italiano attivi nell’importazione, esportazione e transito di armamenti, e sui Paesi da escludere dal commercio in quanto violano diritti umani.

L’obiettivo del Governo è, nel primo caso, annullare l’obbligo di trasparenza sulle operazioni finanziarie legate all’export di armi, oscurando l’elenco delle banche che finanziano e traggono profitto da tali operazioni; nel secondo caso, si prevede che il “Comitato interministeriale presso la Presidenza del Consiglio” possa decidere di revocare ogni divieto di export di armi senza che il Parlamento ne sia informato.

  • Perché il disegno di legge arriva proprio ora?

L’iter di discussione e approvazione del disegno di legge in Senato è iniziato e si è concluso tra l’ottobre 2023 e il febbraio 2024.

Il Governo – sfruttando il clima da “economia di guerra” ingeneratosi nella UE e nei Paesi membri, con politiche di riarmo e di militarizzazione – ha persino impedito di votare emendamenti presentati da senatori della stessa maggioranza in accordo con le proposte delle associazioni cattoliche promotrici della campagna “Basta favori ai mercanti di armi”: iniziativa che, quantomeno, ha avuto il merito di scuotere e frenare l’iter parlamentare, ma non la forza necessaria per creare un contrappeso allo strapotere attuale delle industrie belliche – a partire da Leonardo – e delle grandi banche quali Intesa San Paolo e Unicredit. Penso anche al responsabile silenzio dei sindacati dei lavoratori di queste aziende.

  • Ci spieghi in breve l’intreccio tra produzione di armi e finanza?

Il coinvolgimento della finanza nella produzione e nel commercio delle armi – che alimentano i conflitti su larga scala in tutto il mondo – è sempre più stretto e in crescita esponenziale. Banche, società d’investimento, intermediari finanziari e fondi istituzionali – fondi comuni di investimento, fondi pensione e assicurazioni – sono tra i principali azionisti delle più grandi multinazionali americane ed europee al mondo per fatturato militare. Tra queste ci sono anche l’italiana Leonardo e la tedesca Rheinmetall. Banche e intermediari finanziari operano attivamente, inoltre, nell’import-export e transito di materiali per armi.

Un rapporto recente di Mediobanca rivela che, nei tre anni intercorsi dalla fine del 2021 alla fine del 2024, i titoli in borsa delle industrie militari, sono schizzate al +72% (valore medio) contro il + 20% dell’indice azionario globale. Contrariamente alla narrazione corrente, i maggiori beneficiari degli investimenti dei mercati finanziari sono i gruppi europei: con un +228% medio, rispetto a un +59% dei gruppi americani. Basti dire che il titolo in borsa della Rheinmetall è esploso al +496%. Ciò significa che i mercati finanziari, che canalizzano il risparmio privato e le immense risorse dei fondi d’investimento stanno scommettendo migliaia di miliardi di dollari sulle guerre e la corsa al riarmo.

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  • Banca Etica e Rete Pace e Disarmo hanno pubblicato il report “Zero armi”: cosa dice?

Per prima cosa invito a scaricare gratuitamente questo report. L’aumento delle spese militari a livello globale, accresce l’interesse e l’investimento delle banche italiane nel settore bellico. Sarà sempre più importante registrare, misurare e valutare il coinvolgimento effettivo delle banche, anche italiane, nel comparto militare, utilizzando strumenti di analisi e monitoraggio mirati.

“ZeroArmi” promuove la trasparenza nel settore finanziario, analizzando e rendendo pubbliche le relazioni tra banche italiane e industria bellica. Questo strumento consente agli Enti, agli Istituti, alle società e a ciascuno di noi di acquisire consapevolezza dell’utilizzo dei propri fondi, a partire dal conto corrente, spingendo le banche ad adottare politiche trasparenti e responsabili in relazione al finanziamento dell’industria delle armi.

I risultati del primo report rivelano differenze significative tra le banche: per alcune il coinvolgimento è nullo, mentre altri istituti bancari mostrano livelli variabili di interazione con l’industria bellica.  Intesa Sanpaolo e Unicredit risultano le banche più esposte, con un punteggio che riflette un coinvolgimento assai significativo nel complesso militare-industriale e finanziario.

  • Una mobilitazione ecclesiale e della società civile – quale era avvenuta allora per la legge 185 – la ritieni ancora possibile?

Si, la ritengo possibile, però, non con le stesse modalità di allora. Le modifiche volute dal Governo sono un ennesimo favore ai fabbricanti d’armi e alle banche armate. Non ci saranno ripensamenti da parte della politica. Il complesso militare-industriale-finanziario ha, però, svelato che la “lingua batte dove il dente duole”: e il dente che duole di più – a Roma come a Bruxelles – sta dove non è possibile dimostrare alcuna eticità degli investimenti a sostegno delle guerre e dell’export delle armi in Paesi che violano palesemente i diritti umani fondamentali.

L’opacità che sta per essere introdotta con le modifiche normative di cui ho scritto, non ci impedirà – soggetti organizzati e singoli cittadini coscienti – di disinvestire i nostri soldi (compresi conti correnti, risparmi e fondi pensione) dalle banche che sappiamo “armate”. Lo strumento di monitoraggio messo a punto da Banca Etica e Rete italiana Pace e Disarmo ci viene in soccorso per agire da subito.

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