Decenni di neo-sovietismo hanno oscurato la nazione bielorussa, troppo debole per opporsi a Lukashenko. Il presidente ha vinto ancora una volta, ma il regime potrebbe avere i giorni contati.
Autodefinitosi Batka (Padre dei Bielorussi), Aleksander Lukashenko governa il paese da oltre 30 anni. Una cifra da record dittatoriale destinata ad aumentare grazie all’ultima stra-vittoria nelle “elezioni” di fine gennaio (87% dei voti). Elezioni che questa volta, nonostante la frode fosse palese, si sono svolte in un clima di sommessa tranquillità: una grande vittoria per il regime, che conserva ancora il ricordo traumatico delle proteste biancorosse dell’agosto 2020.
In quell’occasione, per la prima volta dal 1991, l’opposizione aveva fatto tremare l’autorità di Minsk. Per farlo aveva messo in dubbio la legittimità politica non solo del governo ma anche dello stato, e quindi del regime (in Bielorussia le tre cose sono sovrapponibili). Dietro alle accuse di corruzione mosse dai manifestanti e dall’opposizione si celava infatti un malcontento più diffuso e profondo, che aveva a che fare con l’essenza stessa della Repubblica bielorussa, plasmata da Lukashenko nei passati decenni.
Nel 1995, dopo aver annichilito il parlamento ed essersi appropriato della stampa nazionale, il giovane presidente propose un referendum per dare nuova forma alla neonata Repubblica. Fino a quel momento, la transizione post-socialista si era basata su una riappropriazione dei simboli nazionali; in particolare, del tricolore bianco-rosso-bianco e della Pahonia. Entrambi provenivano da una doppia eredità storica: la Confederazione lituano-polacca (1569-1795) e la Repubblica popolare bielorussa (1918). Attraverso il referendum, vinto con percentuali superiori all’80%, Lukashenko tradì questa tradizione: al tricolore sostituì l’attuale bandiera rosso-verde e alla Pahonia lo stemma della Repubblica socialista (con la sagoma del paese al posto della falce e martello). Inoltre, lo stesso voto plebiscitario fu utilizzato per elevare la lingua russa al livello ufficiale dello stato, al pari quindi di quella bielorussa.
Un anno dopo, nel 1996, un secondo referendum propose di cambiare perfino la data del Giorno dell’Indipendenza: dal 27 giugno, giorno della dichiarazione d’indipendenza dall’URSS, al 3 luglio, giorno in cui l’armata rossa liberò Minsk dall’occupazione nazista. Un totale cambio di paradigma. Fu un altro plebiscito, con più del 90% dei voti a favore.
Queste riforme smorzarono il fermento nazionale che caratterizzò gli ultimi anni ‘80 e i primi ‘90. Un periodo in cui i paesi oltrecortina si stavano rapidamente emancipando, seppur tra mille contraddizioni, dal passato sovietico. Per farlo stavano centralizzando politicamente la propria nazione, in un processo che avrebbe (quasi) completato la nazionalizzazione del Vecchio Continente. In questo senso la Bielorussia rappresentò un unicum, perché invece di promuovere affossò i propri caratteri nazionali. La lingua bielorussa venne oscurata da quella russa, la cultura e la storia da quella sovietica.
Perfino in Russia, dove negli ultimi anni il nostalgismo sovietico è tornato prepotente, il 1991 rappresentò un punto di cesura. I governi di Boris Yeltsin prima e, soprattutto, quelli di Vladimir Putin poi, hanno creato nuove narrative e ideologie politiche. Il nazionalismo russo, ad esempio, rifacendosi alla tradizione zarista ha sostituito il bolscevismo; formulando nuove categorie come la “madre patria russa” e i “compatrioti”. Alla bandiera sovietica si è sostituito il tricolore bianco-blu-rosso, quello voluto da Pietro il Grande nel 1705. E, sulla stessa linea, l’aquila bicipite ha scalzato la falce e martello, richiamando l’eredità greco-bizantina del paese. Il periodo sovietico, secondo la lettura di Mosca, è soltanto una parte della più ampia vicenda storica del popolo russo, che ben prima del 1919 aveva creato per sè un’entità politica indipendente: prima il Granducato, poi il regno e infine l’impero.
Il caso russo aiuta a capire come mai, nonostante la Bielorussia abbia seguito un percorso simile alle altre repubbliche post-sovietiche, non sia ancora riuscita ad affermarsi come uno stato nazionale indipendente. I richiami storici e culturali emersi tra il 1989 e il 1994 ripresi dai manifestanti nel 2020 non provengono da un’esperienza politica-statale ma piuttosto sociale e culturale. La già citata Pahonia ad esempio, è stata per secoli lo stemma del Gran Ducato di Lituania prima, e della Confederazione Polacco-Lituana poi, in cui i bielorussi erano una minoranza etnica non rappresentata politicamente. E allo stesso modo, il tricolore bianco-rosso proviene sì dalle truppe bielorusse ma nei ranghi dell’esercito del Gran Ducato e della Confederazione. A differenza della Russia quindi, in cui i richiami storico-politici abbondano già nei secoli dell’impero zarista, in Bielorussia iniziano a emergere soltanto nel periodo sovietico.
Ciò non significa che il popolo bielorusso sia stato storicamente nullo. Una lingua e una cultura bielorussa sono sempre esistite, di più, sono resistite a secoli di dominazioni e imposizioni politiche. Ma a questa resilienza non è mai corrisposto uno sforzo politico sufficientemente grande da generare un’entità territoriale indipendente, appartenente soltanto alla nazione bielorussa. É una storia di dominati in Europa di dominanti.
Paradossalmente poi, quando lo sforzo ci è stato qualcosa è venuto meno. Attraverso le riforme Lukashenko ha tenuto in vita lo stato ma ha smontato la nazione, sostituendone ai tratti distintivi quelli russo-sovietici. Non lo ha fatto per amore della causa bolscevica, ormai sepolta sotto le macerie del muro, ma piuttosto per convenienza politica. In quel contesto, infatti, per i motivi qui riportati, rifarsi all’esperienza dell’URSS era la cosa più semplice e sicura da fare. E la sopravvivenza decennale del Batka sta proprio nell’aver plasmato i caratteri fondamentali dello stato, diventandone l’unico rappresentante possibile.
Ma nonostante tutto, un cambiamento politico in Bielorussia ci sarà, è questione di tempo. Nel mondo contemporaneo il neo-sovietismo di Lukashenko ha perso ogni credibilità, rimanendo appeso soltanto alla figura del presidente. Le proteste del 2020 hanno fatto paura al regime proprio perché ne mettevano in dubbio gli aspetti più profondi e fondamentali, quelli che riguardano l’identità nazionale. Non è detto che il cambiamento andrà in quella direzione, quella del tricolore bianco-rosso e della Pahonia, ma sicuramente sarà qualcosa di più ampio di un cambio ai vertici dello stato.
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