Un libro di don Francesco Scanziani presentato in occasione della Giornata del Malato
I temi del dolore, della malattia e della morte sono racchiusi in un libro di don Francesco Scanziani, docente di antropologia teologia ed escatologia alla Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale di Milano e della psicologa Cecilia Pirrone, docente di psicologia dello sviluppo alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, dal titolo ‘Vorrei starti vicino’, presentato al monastero ‘Santa Teresa’ delle Carmelitane Scalze di Tolentino nell’incontro ‘Accompagnare bambini ed adolescenti di fronte a sofferenza, malattia e morte’.
I relatori si sono interrogati su ‘cosa genera la sofferenza in un bambino, in un ragazzo o in un adolescente? Come stare loro accanto nella dura stagione della malattia? E’ possibile affrontare la morte, con parole di speranza?’ Domande essenziali per gli adulti, che diventano fondamentali nella vita di un bambino e bambina ed essenziali per ragazze e ragazzi,per cui i relatori hanno messo in evidenza che a nessuno ‘piace’ soffrire: “Nemmeno a Dio piace la sofferenza. Gesù sapeva piangere e arrabbiarsi, si prendeva cura dei malati e ha resuscitato Lazzaro. Egli stesso è passato attraverso la sofferenza e al morte, vincendola con la Resurrezione”.
Al termine dell’incontro abbiamo incontrato don Francesco Scanziani chiedendo un commento sul tema del messaggio di questa XXXIII Giornata mondiale del Malato, che prende il titolo dal tema giubilare, ‘La speranza non delude (Rm 5,5) e ci rende forti nella tribolazione’: “Il messaggio di questa Giornata mondiale del Malato si colloca all’interno dell’anno giubilare, che ha come motto: ‘Pellegrini di speranza’. La stretta relazione tra malattia e speranza viene evocata nella riflessione dell’Apostolo ai Romani, rileggendo la condizione umana alla luce dell’evento pasquale di Gesù Cristo, il Figlio di Dio crocifisso e risorto. Il tema di questa Giornata ripropone a tutti i credenti la forza della speranza nel mistero pasquale di Gesù Cristo. In esso si coglie la pienezza dell’annuncio cristiano. Il tempo presente è caratterizzato dalle prove e dalle tribolazioni che segnano l’esistenza dei singoli e delle comunità. Il rischio più grande è rappresentato dalla mistificazione operata dei ‘falsi profeti’ e dalle loro illusorie speranze”.
Cosa significa ‘avere il limite’ come orizzonte cristiano?
“Innanzitutto significa riconoscere anzitutto quello che noi siamo: la nostra identità e la nostra natura. Ma non guardarle con uno sguardo pessimistico. Abbiamo voluto osservarla con quella provocazione di Baricco in ‘Oceano’, in cui dice che la natura ha le sue perfezioni proprio perché è limitata e fa il paragone di dove finiscono i giorni e le notti: lì esplode lo spettacolo, l’alba ed il tramonto. Allora, conoscere i limiti vuol dire scoprire qualcosa di profondo di noi stessi. Nella visione cristiana la notizia più sconvolgente è quella di Dio che è infinito si è incarnato, cioè si è fatto limitato. Il finito è un luogo dove Dio si è rivelato”.
Perché la società contemporanea evita temi come la sofferenza e il dolore?
“Rimuove il confronto con questi argomenti perché li ostenta; in questo modo la nostra cultura, che si vanta di aver superato tabù ancestrali, ne ha creato uno insuperabile. La paura della morte. Succede sempre di più anche in famiglia, certamente nel sincero desiderio di proteggere i figli. Il rischio, però, è che i figli si troveranno soli e impreparati, quando sofferenza e morte busseranno inevitabilmente alla loro porta”.
Che consigli offrite a tal proposito ai genitori, che debbono affrontare tali temi con i figli?
“La sofferenza fa parte della vita, la morte è l’altra faccia della vita. La nostra cultura esorcizza e allontana questi temi, poiché sembrano il fallimento della medicina o della tecnologia. E’ importante educare al tema del limite. E’ un discorso realista, non pessimista. Occorre avvicinarsi a chi soffre entrando in colloquio diretto con lui, oppure accompagnando chi è più piccolo per avvicinarlo gradualmente alla malattia con verità rassicuranti”.
Per quale motivo la Chiesa dedica una giornata al malato?
“La Chiesa mette al centro la persona. La malattia è un tratto della vita ed è l’occasione per dire che ognuno è persona anche nella malattia. Per valorizzare l’atteggiamento di Gesù, che ha dedicato tantissima parte della sua vita a stare accanto, ad ascoltare, ad entrare in contatto con il malato ed addirittura nel capitolo 25 dell’evangelista Matteo si è addirittura identificato con coloro che avevano fame e sete, con gli ammalati ed i carcerati. Più vicino di così si muore, verrebbe da dire. Gesù ha fatto anche quello: è morto per noi”.
Come si pone la fede di fronte alle pagine dolorose della vita?
“Il cristiano non ha soluzioni da offrire; tanto meno parole consolanti che pretendono di rispondere ai ‘perché’ drammatici della vita. Ha solo una storia da narrare quella di Gesù. Come scriveva lo scrittore francese Paul Claudel: Dio non è venuto a spiegare la sofferenza, è venuto a riempirla della sua presenza”.
Esiste un nesso tra il significato della morte ed il significato della vita?
“La prima cosa è domandarsi se hanno un senso il male, la sofferenza o la morte. Forse dovremmo accettare la durezza di esperienze che non hanno un senso. La Pasqua ci aiuta a capire che il male è il nemico dell’uomo e di Dio. Gesù è venuto nel mondo per combattere questo male, riempiendolo del Suo senso, cioè l’Amore. Nella Pasqua scopriamo la rivelazione di Dio ed il senso della vita”.
Quindi è più ‘facile’ rimettere i peccati o dire ‘alzati e cammina’?
“Solo Gesù può fare questo e soprattutto ci ha mostrato che Lui non ‘lega’ la malattia al peccato, ma mostra che sono tutte e due ‘nemici’ dell’uomo e di Dio. Quello che ci consola è che Dio è sempre in lotta contro il male in ogni sua forma: il peccato, la sofferenza e la morte”.
Quale è la ‘genesi di questo libro?
“Questo libro è nato dalla conoscenza e dalla stima reciproca maturata nell’esperienza parrocchiale e affinata dal lavoro comune nell’equipe dei coniugi Mariateresa Zattoni e Gilberto Gillini, pedagogisti lecchesi, noti per un approccio sistematico, ma anche dalla ricchezza di uno sguardo che unisse il taglia femminile a quello maschile, lo sguardo di una donna, moglie e madre confrontato con quello di un prete, la competenza psicologica e quella teologica. E’ uno stile che aiuta entrambi a crescere, arricchente per le proprie ricerche, ma anche uno stimolante stile di chiesa. Questo libro è nata dalle domande, spesso tacitate delle persone che incontriamo di fronte al dolore della morte e al dramma della sofferenza, accentuate in modo unico con l’esplosione della pandemia. Il desiderio non è dare soluzioni, ma accompagnare con rispetto le persone”.
Questo articolo è stato tradotto e adattato da ACI Prensa
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