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Con il consueto “fuso orario” Ue, e cioè con tre annidi ritardo, l’Europarlamento ha ieri duramente bacchettato la presidente della Bce Christine Lagarde. Lo ha fatto in seduta plenaria (378 voti a favore del documento, 233 contrari e 26 astensioni), mettendo nero su bianco le raccomandazioni da rivolgere a Francoforte. Nelle quali è stato inserito un passaggio di dura – per quanto tardiva – critica politica ed economica verso la Lagarde, chiedendo di fare di più per contrastare l’inflazione e annotando come la Bce abbia sbagliato negli ultimi anni a credere che la fiammata inflazionistica fosse solo provvisoria.
Tornano alla mente le poche voci – Libero è una di queste, ma vanno positivamente ricordati anche alcuni ministri italiani – che osarono a suo tempo sollevare obiezioni contro la Lagarde. Ma furono (e fummo) trattati come cani in chiesa, come soggetti da rieducare e anatemizzare, come eretici da mandare al rogo.
Poiché il tempo è galantuomo, vale la pena di rileggere alcune delle solenni sciocchezze messe in fila dalla Lagarde all’epoca. Ecco cosa diceva il 20 gennaio 2022. Titolo della Stampa: «Inflazione, Lagarde: nel 2022 si stabilizzerà e calerà. Non agiremo come la Fed». E nel corpo dell’articolo: «Pensiamo che nell’anno 2022 (l’inflazione, ndr) si stabilizzerà e calerà. Calerà meno di quanto noi e tutti gli economisti avevano previsto, ma calerà».
Concetto ribadito il 21 gennaio dalla stessa gran dama della Bce: «Nonostante l’inflazione sia arrivata al 5%, non ci aspettiamo una dinamica durevole che porti la crescita dei prezzi fuori controllo, e non penso che raggiungeremo mai i livelli degli Stati Uniti».
La governatrice Bce era fissata con l’idea della transitorietà dei rincari: pure in una sua conversazione tv di qualche mese prima nel programma Che tempo che fa, a fine novembre 2021, aveva detto: «La corsa dell’inflazione scomparirà, è un fenomeno temporaneo causato dal Covid».
E per mesi, per tantissimi altri osservatori e analisti (e per qualche supertrombone internazionale), il mantra era proprio quello dell’«inflazione fenomeno passeggero». Tra i sostenitori della tesi c’era Paul Krugman: secondo il Nobel idolo dei progressisti, una delle cause della fiammata era legata all’abitudine, presa durante la pandemia, di spendere più in prodotti e meno in servizi (esempio: mi compro una cyclette anziché abbonarmi a una palestra), e un’altra causa più “macro” andava ricondotta alla crisi dei commerci mondiali. Ma – secondo Krugman – tutto sarebbe passato.
Ecco sulla stessa linea l’allora ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire (11 febbraio 2022): «Per la fine del 2022 dovremmo avere un’inflazione più bassa di quella attuale». Qualche mese prima (ottobre 2021) si era iscritto a questa stessa scuola di pensiero l’ex ministro italiano Domenico Siniscalco, in un intervento su Repubblica dal titolo: «L’inflazione non ci minaccia». Ecco il passaggio chiave: «Vi è (…) motivo di ritenere che questo shock, in pieno svolgimento, sia intenso ma temporaneo».
Ora, lungi da noi la tentazione di infierire retroattivamente su questi clamorosi svarioni di lettura della realtà. Semmai – guardando al futuro – ci sono due temi tutti politici che sono proprio adesso sul tavolo. Il primo: dovranno passare altri tre anni per abbandonare il catastrofico progetto del green deal, e quindi anche questa legislatura europea – come quella passata – sarà funestata dall’ecofondamentalismo verde? Quanti posti di lavoro si dovranno perdere e quante fabbriche dovranno chiudere affinché scatti un sussulto di resipiscenza?
Il secondo: dovranno passare tre anni prima di capire che non ha senso un approccio “muro contro muro” verso Donald Trump? A una leadership negoziatrice e transattiva occorrerebbe rispondere con una politica simmetricamente orientata allo scambio, al do ut des. Esempio: tu non mettere i tuoi dazi, e noi come Ue rinunciamo ai nostri (sotto forma di Iva all’importazione). E invece – dalla von der Leyen alla stessa Lagarde – da giorni registriamo un crescendo di attacchi e reazioni scomposte contro Washington. Come se davvero qualcuno, tra Bruxelles e Francoforte, fosse convinto di potersi permettere di salire sul ring contro il presidente Usa. Per inciso, senza disporre di alcun mandato popolare in tal senso.
Che farà il Parlamento europeo e che faranno i partiti (tutti) davanti a queste due sfide? Lasceranno ancora una volta mano libera a Lagarde e von der Leyen, salvo poi dolersene con tre annidi ritardo?
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