L’industria arranca, la disoccupazione sale: la destra senza strategia

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Le parole sono importanti. E ci sarà pure un motivo serio e concreto alla base della decisione di questo governo di cambiare il nome al ministero dello Sviluppo economico. Ribattezzato ministero delle Imprese e del Made in Italy, Mimit. La spiegazione parrebbe essere la più semplice possibile: il governo e il ministro Adolfo Urso hanno scientemente deciso di non occuparsi più dello sviluppo economico del paese.

Produzione in calo

Forti di tale deduzione, diventano accettabili persino i dati drammatici pubblicati ieri dall’Istat, che certifica il crollo della produzione industriale del 3,5 per cento nel 2024; meno 7,1 per cento su base annua; un inanellamento di 23 mesi consecutivi di retromarcia per l’industria italiana. Solo ai tempi del Covid era andata peggio. Il dato del settore auto fa spavento: meno 23,6 per cento anno su anno. Crolla del 18,3 l’industria tessile. Cala del 14,6 per cento la metallurgica. Si salva l’alimentare.

Non c’è neppure la foglia di fico dell’occupazione: è sempre l’Istat a dire che, a dicembre, è tornato ad aumentare il tasso di disoccupazione, attestandosi al 6,2 per cento, così come diminuisce il tasso di occupazione fermandosi al 62,3 per cento, fra i più bassi d’Europa. Per non parlare della qualità dell’occupazione sempre più caratterizzata da bassi salari e precarietà. A far da corollario a questo quadro non propriamente allegro ci si mette pure l’esplosione della cassa integrazione: nel 2024 il 20 per cento in più rispetto all’anno precedente.

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Le risorse

Nonostante le difficoltà dell’industria fossero tutte ampiamente prevedibili, l’ultima manovra ha tagliato il fondo automotive – meno 75 per cento – a svantaggio di Stellantis e dell’indotto, già pesantemente colpito dalla crisi tedesca dell’auto, verso cui esporta la gran parte dei propri beni. Sempre in manovra il governo ha ridotto l’insieme delle risorse stanziate per le politiche industriali, dai 5,8 miliardi del 2024 a 3,9 miliardi nel 2025 fino a 1,2 miliardi nel 2027.

Inoltre il programma Transizione 5.0 varato in pompa magna, fa enorme fatica ad essere messo a terra, soprattutto per le complessità burocratiche. Fin qui, si potrebbe dire che non è direttamente colpa di Urso, perché le decisioni di taglio ai sostegni sono state piuttosto prese dal ministro dell’Economia Giorgetti, alle prese con l’urgenza di ridurre la spesa pubblica.

Parallelamente, i costi dell’energia stanno esplodendo e il governo butta la palla in avanti, promettendo un immaginifico e futuribile ricorso all’energia nucleare. «Il governo venga in parlamento e spieghi all’Italia cosa ha intenzione di fare», commenta il responsabile economico del Pd, Antonio Misiani, che fa notare come, anche in questo caso, non è esattamente il ministro Adolfo Urso a prendere le decisioni in materia di costo delle bollette.

Sul fronte rincari energetici, un tema su cui persino l’allineata Confindustria ha alzato la voce, chiedendo un sostegno per scongiurare la chiusura di interi settori industriali, dalla chimica alle fonderie, la questione è in carico al ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, di Gilberto Pichetto Fratin. Anche qui, volendo fare attenzione alle parole, il nome del ministero non fa esplicito riferimento al risparmio energetico.

Le crisi aperte

Un tema su cui invece Adolfo Urso ha effettivamente voce in capitolo sono i tavoli di crisi industriale. A fine 2024 erano sessanta. A oggi sono lievitati a 74 e nel giro di un mese e mezzo le persone che si sono ritrovate a fare i conti con un posto di lavoro traballante sono cresciute di oltre 113mila unità, mentre gli esuberi e i licenziamenti sono lievitati a quota 13mila.

«Un disastro», dice Pino Gesmundo, segretario confederale Cgil, che continua: «Ventitré mesi di calo ininterrotto della produzione industriale e il governo continua a raccontare un paese che non c’è. Mentre tutti gli indicatori segnalano un’economia italiana in piena fase di stagnazione, loro sono troppo impegnati a raccontare successi di governo che, semplicemente, non esistono, non sono reali».

Sul fronte delle grandi partite aperte, l’elenco è sterminato: dagli impianti Stellantis in attesa di conversione; l’Ilva che cerca un acquirente con il poco invitante biglietto da visita di un impianto che, quando funziona, brucia oltre cento milioni di euro al mese; il destino segnato dell’industria del bianco, con Candy ad aggiungersi alla lista delle situazioni critiche. E si prevede che anche l’intera industria del petrolchimico, fondamentale per la produzione chimica e plastica, potrebbe trasformarsi in una drammatica Caporetto. Il governo potrà obiettare che è l’intera area euro ad andare male e che, se l’industria e i consumatori sono confusi, è colpa del Green Deal e quindi dell’Europa.

Tuttavia, fa notare Fedele De Novellis, direttore di Ref, nell’ultima indagine congiunturale «nonostante l’intera area euro è cresciuta a ritmo moderatissimo nel 2024, nell’ordine dello zero virgola, fa eccezione la Spagna, che ha registrato una crescita del pil del 3 per cento», facendo leva su sostegni oculati a favore di consumi e industria e puntando sugli investimenti di Next Generation Eu.

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Saldo e stralcio

 

Mentre, a fronte di dati congiunturali negativi, l’Italia ha scelto di imboccare una strada diversa: «Le prospettive sono segnate dall’orientamento di segno restrittivo della politica di bilancio», dice De Novellis, che continua: «I target sulla spesa netta sono stati incorporati nella legge di bilancio per il 2025 e porteranno ad un deficit vicino al tre per cento del Pil nel 2026, da livelli sopra il sette per cento fra il 2020 e il 2023. Se realizzata, tale correzione sarebbe la più ampia della storia italiana. Ne vediamo gli effetti positivi sull’andamento dello spread, e quelli negativi sulle prospettive di crescita». Avanti, consapevoli, verso il deserto industriale.

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