Alla scoperta di Noto, capitale nobile dell’oriente siciliano

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Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione


Correva l’anno del Signore 1489 ed era il 14 ottobre, un pomeriggio mitissimo con la terra nera e pulita, le montagne grigie di ulivi e giù il fiume che correva da un canalone all’altro. La immensa vallata dell’Anapo, dalla cima nera di monte Lauro fino ai canyon bianchi di Pantalica, doveva essere lussureggiante, con quel fiume allora colmo di acqua densa e rapida, i boschi di papiro che coprivano i minuscoli laghi, e quei due castelli possenti che incombevano l’uno sul dirupo del monte Acre, e l’altro sulla cima di Buscemi.

Le cronache narrano che quel giorno, il barone Andrea Alagona, padrone del feudo di Acre, erede della celebre famiglia Alagona cui era appartenuto il grande ammiraglio Artale, cavalcava col suo seguito di gentiluomini e villani a fondo valle. Si narra anche che fosse uomo prestante e di magnifico aspetto virile, con una corta barba rossa, abilissimo nel tiro dell’arco, ed emerito puttaniere talché era stato persino citato in giudizio dinnanzi alla corte di Palermo da un gruppo di vassalli ai quali aveva procurato disonore conducendo seco «in talamo o per frasche» (così testualmente i verbali di allora) quasi un centinaio di donne, fossero mogli o figlie di gabellotti, villani o burgenses.

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Chiamato dall’inquisitore il barone aveva ascoltato una per una le accuse, controllato i nomi delle vergini e delle sposate che aveva messo sotto, per crine o per frasche, ed alla fine aveva detto soltanto «Est vero!», ed il magistrato del Vicerè lo aveva mandato assolto «Grazie a vossignoria della sinceritade».

I codici non scritti dell’epoca contemplavano infamia e condanna per i gentiluomini che si fossero macchiati di spergiuro. Naturalmente c’erano anche altri reati di cui un feudatario poteva essere chiamato a rendere conto alla giustizia, fino alla morte «more nobilium» cioè alla decapitazione; per esempio l’oltraggio alla Santa Chiesa, l’assassinio di un altro nobile o di un consanguineo. Andare per frasche con vergini e mogli di cafoni non era delitto, e giustamente poiché nemmeno oggi lo è, sia pure con figlie e mogli di ingegneri o ministri.

Torniamo dunque a quel pomeriggio di ottobre, dolce e soleggiato, e al barone Andrea Alagona che, cavalcando per forre e boschi della valle, vide la muta dei cani avventarsi contro un macchione e da lì schizzar fuori un magnifico cinghiale. Caricare l’arco, tenderlo e scagliare la freccia fu un lampo, il cinghiale con la freccia profondamente piantata nel fianco, fece una capriola ruzzolando di balza in balza. Era tuttavia un bestione possente e gli ultimi secondi di vita li spese per rialzarsi e cercare fuoriosamente la fuga, cadendo, rialzandosi, ruzzolando ancora fino alle rive dell’Anapo.

Così, grondando sangue e continuando a morire, la bestia traversò l’acqua del fiume e guadagnò l’altra riva dove gli si stampò nella pupilla agonizzante l’immagine di un grande polverone, altri cani e cavalcature che gli correvano intorno circondandolo, e un uomo alto, vestito di cuoio e velluto, con una lugubre barba nera che scendeva d’un balzo da cavallo brandendo una lama. Era il conte di Buscemi, Giovanni di Ventimiglia, che gli dette il colpo di grazia. Dall’una sponda e dall’altra del fiume i due gruppi di gentiluomini e villani, cani e cavalli, si squadrarono in silenzio per qualche istante, poi il barone Alagona gridò: «Ohila, gente di Buscemi, il cinghiale est mio poiché l’ho scovato nel mio tenere ed io l’ho ferito a morte!».

Il conte Buscemi aveva però già posato il piede sul corpo dei cinghiale e gridò a sua volta: «Ma est venuto a morire nel mio tenere! Io gli ho dato il colpo di grazia!» I due gruppi, con i cavalli scalpitanti in mezzo alla bassa acqua del fiume, cominciarono ad avvicinarsi minacciosamente l’uno all’altro ed il barone Andrea fece un impercettibile gesto di comando ad uno dei suoi cafoni il quale corse avanti. Nell’attimo stesso in cui si chinò a tagliare l’orecchio dei cinghiale, gli arrivò un fendente alla nuca e rimase così, giù morto, per tre secondi in ginocchio con la testa staccata dal busto.

Cadde infine e, nello stesso istante, un cafone appartenente alla servitù di Buscemi rimase due secondi morto in piedi perché una freccia dei barone Andrea gli aveva trapassato la gola. I due gruppi continuarono a fronteggiarsi in silenzio. Il conte di Buscemi aveva estratto con calma una freccia dalla faretra e, armato l’arco, stava prendendo la mira verso la piccola folla di cafoni di Acre che gli stavano a venti metri e ognuno dei quali cercava di nascondersi dietro il compagno. Il primo della fila volse uno sguardo implorante al suo padrone, con un filo di voce: «Vossignoria fate pace. Io ho quattro figli…» Freccia in mezzo agli occhi.

Sibilo quasi contemporaneo dall’arco dei barone e un cafone di Buscemi n’ebbe il cuore trapassato. Caddero insieme. Bisogna ricordare che il barone e il conte erano davvero infallibili. E fu a questo punto che uno dei gentiluomini, facendo impennare il cavallo gridò: «Signori nobili basta! La vostra collera non ha avuto infine una giusta soddisfazione? Valgano infine le regole della cavalleria!»

Pur gelosi dei loro privilegi, ma in realtà di animo gentile, i due nobili ancora un po’ recalcitranti, sospinti però dai gentiluomini ridenti, si vennero l’uno incontro all’altro e si strinsero fortemente la mano. I corpi dei cafoni ebbero pietosa sepoltura, e con le carni dei cinghiale si fece banchetto fino a notte in una radura. Pare con canti di zufolo e cori piccanti. Era il tempo felice dei grandi feudi. I capostipiti erano arrivati nell’isola al seguito degli eserciti che incalzavano come ondate alla conquista della Sicilia, i normanni, gli svevi, gli spagnoli, gli angioini.

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A volte erano cavalieri animati da mistiche vocazioni di conquista, avevano combattuto nelle crociate, avevano per il sovrano una devozione fanatica, conoscevano soltanto il mestiere delle armi al quale erano stati allenati dall’infanzia come si fa oggi per i nuotatori in modo che a sedici diciotto anni possano esprimere il loro migliore rendimento agonistico. Ed infatti spesso questi cavalieri di ventura erano poco più che ventenni, sapevano combattere con la spada, la balestra, il pugnale, l’alabarda, la picca, a piedi ed a cavallo, quasi sempre non sapevano nemmeno leggere e scrivere perché non avevano avuto tempo di imparare e perché non serviva a niente, la penna era mestiere soltanto di monaci e giullari.

Talvolta non erano nemmeno cavalieri di grandi famiglie, ma semplicemente avventurieri e lazzaroni, animati da avidità di saccheggio e garantiti dalla capacità e crudeltà di combattimento. Sopravvissuti a cento battaglie per dieci padroni diversi, erano i primi a lanciarsi contro le mura delle città assediate ed erano i primi a morire, ma anche i primi a scatenarsi per le vie della città conquistata e predare, uccidere, saccheggiare.

Il geografo arabo Edrisi racconta che il solo Ruggero Normanno donò in Sicilia ben centotrenta baronie ad altrettanti suoi guerrieri, ogni baronia costituita da più feudi, campagne, boschi, fattorie, castelli, migliaia di cafoni sottomessi, e diritto quasi assoluto di proprietà e quindi di vita o di morte sull’intero territorio. Sulla plaga orientale della Sicilia, dove le terre erano più fertili, gli approdi più agevoli, le terre più popolate di villani, fondarono logicamente le baronie più ricche.

E fu in quel tempo oscuro e splendido che sulle piccole montagne a sud di Siracusa ricominciò a fiorire la fama di Noto, l’antichissima Ducezio, una cittadina decine di volte assediata, saccheggiata, distrutta, riconquistata, ricostruita. Tutto il suo territorio che era vastissimo ed andava fino al promontorio del mare d’Africa, reca ancora oggi, nei suoi confini, nei nomi, nelle vestigia, nella spartizione dei feudi, il segno incancellabile di quei secoli.

Si può dire che questa straordinaria bellezza di Noto, così malinconica ed armoniosa abbia cominciato a fiorire proprio dagli orrori e dalle sopraffazioni di quel tempo, dalla egemonia assoluta di poche decine di famiglie. In realtà non esiste nella storia un esempio di potere totale come quello del barone. Era realmente padrone di tutto, della terra, delle case, dei frutti, dei fiumi, dei boschi, del raccolto, delle ulive e di qualunque altra cosa fosse viva entro quei confini.

L’aria da respirare e l’acqua da bere erano benevolenza e dono dei baroni i quali esercitavano anche giustizia, armavano i soldati, decidevano la pace e la guerra e avevano anche lo ius primae noctis, cioè il privilegio di esercitare funzioni maritali nella prima notte di nozze con qualsiasi ragazza vergine ed illibata.

Era una specie di diritto di proprietà che spettava al barone senza la cui licenza infatti nessun villano poteva contrarre matrimonio. C’era persino una giustificazione sociale e fisiologica: essendo infatti il barone di razza eletta, e quindi più forte, alto e intelligente era probabile che il primogenito della cafona potesse avere quelle virtù umane.

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Lo jus primae noctis fu abolito da un editto di Gregorio Magno il quale però stabilì che il villano poteva ottenere la «licenza maritandi cum uniius solidi summa», cioè pagando al barone una somma di riscatto che ovviamente era proporzionata alla grazia e gentilezza della vergine condotta in sposa. Se però i baroni non potevano essere convenuti in giudizio dai villani, fra di loro si scannavano. Per ragioni di confine, per diritti di eredità, per servitù fiscali, per predonerie e rapine, per violazioni di caccia.

Appunto per essere quanto più vicini ai centri del potere assoluto e della giustizia, e quindi conoscere, adulare, intrigare, corrompere, falsificare (quante cose hanno politicamente insegnato ai siciliani!) i baroni cominciarono ad abbandonare le loro residenze feudali e trasferirsi in città costruendovi i loro palazzi, ognuno che fosse il più sontuoso e imponente possibile e ammonisse sulla potenza nobiliare del casato.

Le guerre si erano fatte sempre più rade e, in ogni caso, oramai erano sempre i villani a farle, le imprese epiche improbabili, l’arte delle armi sempre più faticosa e meno ammirevole, un colpo di archibugio ammazzava un cavaliere a cento metri di distanza. Più che abilità nell’uso di una spada cominciò a valere l’arte del ruffiano di corte, la parentela con un cardinale, la pazienza dell’intrigo, e infine il sapere leggere bene nelle leggi scritte.

I discendenti dei cavalieri romantici o dei predoni crudeli giunti al seguito di Federico, o Ruggero, o Carlo d’Angiò, divennero causidici e litigiosi, si incipriarono, vestirono di velluto, impararono a sapere scrivere lettere, poesie, testamenti, ricorsi e denunce. Già fin dall’epoca delle guerre musulmane Noto era stato un centro di cultura raffinata, una specie di Oxford della Sicilia orientale, nella quale si potevano praticare tutti gli studi possibili, affidati al clero, soprattutto ai gesuiti e benedettini i quali avevano fatto dei loro seminari delle autentiche università.

Attorno a questo nucleo cominciarono via via ad arroccarsi decine di famiglie nobiliari, da un canto affascinate dalle ricchezze culturali della città e dall’altro, dalla necessità di trovare residenza in una città ritenuta quasi inespugnabile oramai a qualsiasi aggressore.

Nessuno dimenticava che Noto era stata l’ultima città siciliana a cadere in mano ai musulmani e che costoro avevano dovuto assediarla e lottare per ben trentanove anni, prima di poterla conquistare. Su quella piccola collina a otto chilometri dal mare cominciò a sorgere una città bianca e soave nella quale si addensarono tutte le famiglie nobiliari del territorio. Principi, duchi, baroni, conti, marchesi, i nomi antichissimi, emersi dalle tenebre del medioevo.

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Quando, nel 1693, il grande terremoto distrusse quasi tutte le città siciliane, a Noto abitavano quasi ottanta famiglie nobiliari, praticamente i padroni di mezza Sicilia.

Alcuni di loro emigrarono verso Catania, Siracusa, Palermo, ma i più rimasero e ricominciarono a costruire i palazzi, un po’ più tozzi e solidi, per resistere ai cataclismi, ma altrettanto sontuosi e adorni: il clero da parte sua ricostruì chiese e cattedrali, seminari e palazzi di governo. Sembrò quasi una sfida all’ultima distruzione ed in realtà tutta la grazia, la fantasia, lo splendore del Seicento siracusano trovarono a Noto la loro più completa espressione di bellezza.

Così è rimasta questa città, e dentro vi sono rimaste le famiglie dei nobili, gli ultimi eredi, gli epigoni come se, conclusa per sempre la loro funzione storica, gli esseri umani facessero oramai parte delle cose costruite decine di generazioni avanti, le facciate sempre più gialle, i saloni sempre più deserti, i grandi cortili vuoti, i balconi chiusi. Noto non è bella, ma soave, né magnifica o superba ma armonica e quasi musicale.

Il suo colore dominante è il giallo, un colore di vecchio sole rappreso sulla pietra e che poi vi si è delicatamente spento, lasciando un alone impercettibile su tutte le architetture, le scalinate, i porticati, le colonne, i campanili. Noto è un paese di pietre scolpite, poste l’una sull’altra nel modo più amabile, con un disegno che non fosse mai imperioso o tracotante, ma sempre estremamente gentile e talvolta quasi estenuato. La piazza centrale sembra un immenso palcoscenico dove la storia favolosa della nobiltà siciliana vive l’ultimo atto.

Al centro la facciata altissima della cattedrale, poi la facciata bianca del vescovato, sovrastata dal palazzo bianco della famiglia Trigona. ultimo erede Nicola, barone di Frigintini che ha soltanto una figlia. A sinistra, l’uno appresso all’altro, quasi disegnati su un fondale, tre palazzi, ognuno diverso e tuttavia armonicamente fusi nella disposizione architettonica. Il primo è la dimora dei marchesi di Landolina.

Non c’è un solo spiraglio in tutti i balconi e le finestre. Il secondo appartiene a Corrado Di Lorenzo, marchese del Castelluccio: la nonna fu dama di Carolina di Borbone, regina di Napoli; la madre dama di Elena di Savoia. Sembra deserto. Il terzo palazzo ha uno spiraglio luminoso all’ultimo piano. Vi abita Corrado Nicolaci, principe di Villadorata, barone di Ogliastro, di Bonfalà e di Gisira, ultimo ed unico erede della famiglia. Ha sessant’anni è scapolo, senza figli. Più avanti il piccolo municipio, ed alle spalle il palazzo della famiglia Rau, marchesi della Ferla, tre grandi balconi serrati, un porticato con le colonne, un minuscolo cortile, silenzioso come un chiostro.

Salendo la scalinata bianca di marmo nella penombra, ci sembra di violare un silenzio oramai immobile. In cima alla scala un vecchio signore sorridente, ha il naso aquilino come i profili di Piero Della Francesca, i capelli candidi, è tutto candido nel volto, nelle mani. Ha una voce fievole, come se volesse così indurmi a parlare anch’io sommessamente. «Io sono solo lo zio! Ecco il marchese!»

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Roseo, giovanile, anch’egli sommesso e sorridente, non è sposato, non ha figli, si chiama Giuseppe ed è anche barone di Bufalefi e Gibbina. Stiamo seduti tutti e tre su un salottino di raso azzurro, nell’angolo del grande salone, sorridenti. Il fotografo si muove come se temesse continuamente di toccare una cosa e subito romperla, chiede il permesso di fotografare solo con un inchino ed un lampo negli occhi, ogni volta che passa dinnanzi al vecchio lo saluta con un cenno impercettibile del capo, a guisa dei sagrestani che passano continuamente dinnanzi al tabernacolo. Il marchese Giuseppe racconta e intanto lo zio reca tre bicchierini di liquore: «Sono scapolo.

Troppo vecchio per sposarmi. Non faccio politica, mi sarebbe piaciuto fare l’avvocato, ma mi espulsero dall’università, la nostra famiglia è vissuta sempre sulla terra, non ha mai tradito, abbiamo ancora i feudi di Bufalefi e di Gioia, quattrocentoventi ettari in tutto, mandorleti, vigne, agrumeti, seminativi, bisogna curare la terra giorno per giorno, essere presenti sulla terra altrimenti si perde. Un contadino vuole ventimila lire al giorno…».

Brindiamo con i bicchierini al centro del salone. Mormoriamo qualcosa sorridendo. Non si capisce bene alla fortuna di chi abbiamo brindato.

Il marchese Giuseppe precisa: «Non frequentiamo gli altri nobili di Noto. Viviamo appartati con i nostri ricordi, in questo vecchio palazzo, o nelle campagne del nostro feudo. Talvolta la sera si va al circolo dei civili per chiacchierare, se è bel tempo ci si siede sul marciapiede a guardare il passeggio…Noi abbiamo il corso più bello della Sicilia!».

La strada del corso si estende da una parte all’altra della collina e si chiama «cassaro», cioè il luogo della città dove ogni sera di bel tempo, primavera, estate o autunno, le famiglie borghesi usano passeggiare lentamente, incontrandosi, salutandosi, senz’altro scopo che il piacere civile di vedere e farsi vedere, dal che il termine siciliano appunto di «cassariarisi» che significa esattamente: fare qualcosa per non far niente.

Lungo questo mirabile chilometro di strada, disposti davvero con una genialità teatrale, si succedono tutti i palazzi nobiliari, le chiese, gli edifici pubblici, la scalinata della cattedrale, il minuscolo, meraviglioso teatro settecentesco, ogni facciata dell’identico tenuissimo giallo. E la pietra solare e dolce di tutte le terre elleniche della Sicilia.

Taluni cimiteri sono così: tu li vedi apparire d’un tratto sulla cima di un piccolo monte, guglie, torri, pinnacoli, statue, per qualche secondo tu pensi affascinato: «Ma quale fantastica città è quella, così bianca e meravigliosa?», poi scopri che è un cimitero dove ogni grande e antica famiglia ha voluto una sua dimora, che fosse armoniosa come quella che ognuno ebbe in vita, solo più esile ed alta poichè non c’erano più ladri e rapinatori da cui difendersi. Così Noto, la città meravigliosa per potenza e cultura, per un secolo l’autentica capitale di tutto l’oriente siciliano, la dimora di tutte le famiglie più illustri.

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Questa sensazione di cose che non esistono più, questo colore di sole che si è spento sulle pietre: questo miraggio di bellezza a Noto diventa un’atmosfera di fascino costante. Forse erano selvatici capitani di ventura quegli uomini che, nella notte del medioevo, calarono quaggiù da tutte le contrade d’Europa e divennero padroni e baroni, ma poi accadde anche che i figli dei loro figli costruirono questa città senza eguali per armonia.

A mano a mano che guerre e rivoluzioni andavano bruciando la storia, Noto cominciò a perdersi dentro la storia stessa, sempre più lontana e malinconica, i suoi palazzi si spopolarono, altre città sorgevano lungo la costa, affollate di cafoni, impiegati, mercanti, contadini, crescevano povere, avide e violente, ma con una forza da animale selvatico, e Noto invece restava intatta ed immutabile lassù, su quelle colline dirimpetto al mare, ma troppo lontane dal mare. Con la malinconia e la solitudine divenne ancora più bella e triste.

Non esiste in tutto il sud un luogo dove la bellezza sia così quieta e serena, e la fantasia dell’uomo si sia fermata nell’attimo giusto della storia, prima di recare offesa al suo prodigio. Forse per questo Noto è anche il luogo dove principi, baroni, marchesi e duchi, gli ultimi eredi di famiglie gigantesche, si sono fermati per sempre, nei saloni sempre più deserti dei palazzi, a concludere il ciclo di una storia tragica, feroce e fantastica.

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