di Luca Mastrantonio
Nel nuovo romanzo L’anniversario, lo scrittore affronta il tema dei legami tossici. «Ho rotto un tabù»
Andrea Bajani con L’anniversario (Feltrinelli) ha scritto un romanzo breve europeo, con un tema molto nord-americano: “sparire”. Il libro ruota attorno al peso e al sollievo della distanza nei rapporti familiari disfunzionali, presenti già in Se consideri le colpe e Il libro delle case, ma la scrittura ha un livello di combustione più alto.
Più alto persino del film C’è ancora domani di Paola Cortellessi, che può venire in mente per il tema e la durezza del racconto, anche se lì c’è più violenza ma pure un lieto fine, in mano alla donna. Nel libro di Bajani no, il finale, intenso e delicato, fa giusto tornare a respirare dopo un’apnea di violenze sottili, in cento pagine dense e precise, perché la precisione è la vendetta del racconto; affidato a una voce narrante maschile che abbandona la famiglia di origine, senza rimpianti.
L’anniversario si riferisce alla nuova vita di questo giovane uomo che con l’autore condivide diversi tratti autobiografici (la geografia, da Torino a Parigi, il rifarsi una vita lontano da casa), il maggiore dei quali però è fare lo scrittore, e dunque la finzione, l’invenzione che si mescola al dato reale.
Gli altri personaggi sono i genitori, oltre a una sorella fuori campo, un’amica della madre che presto sparisce e una terapista. Il padre è un violento che brilla non tanto per il retaggio fascista e lo stampo patriarcale, accennati, ma per il vittimismo passivo aggressivo e le tecniche di manipolazione, come l’elargizione del perdono quale pratica auto-assolutoria, per il semplice fatto che emette questa moneta, falsa perché non coperta da vere riserve aurifere. La moglie, infatti, la madre dell’io narrante, è in parte immune alla violenza del marito, generando l’inconfessabile segreto di una coppia che, a suo modo, se si mettono in piena luce solo i momenti belli, può sembrare quasi felice. Come tutte le famiglie in cui non si scava a fondo. La vanga del romanzo, per scavare e seppellire, è una strepitosa figura che si può definire terapista, ma sta tra la gattara e la maga, contattata dalla voce narrante attraverso una pasticceria torinese. Dico voce narrante e non il protagonista, perché ne L’anniversario protagonista è la violenza. Non la violenza in famiglia, ma la famiglia in quanto violenza. Per questo, forse, è inutile chiedere all’autore — che contattiamo in Texas, dove vive — cosa ci sia di autobiografico: ogni famiglia è violenta a modo suo, per abusare della celebre frase di Tolstoj.
Com’è nata l’idea di questo libro?
«È nata in questo studio da cui sto parlando, dell’università dove insegno Writing the family, scrivere della famiglia, che ti porta a confrontarti con un tabù, perché della famiglia non si può parlare male, è un vincolo che non si può rompere. Ricordo che sono uscito dalla classe, sono venuto qui e ho scritto la prima scena, quella della separazione, del congedo della voce narrante, dalla sua famiglia».
L’io narrante taglia i ponti con il padre e la madre, cambia numero di telefono, risponde alle mail in modo evasivo. Oggi c’è chi lo chiama “ghosting”, diventare fantasmi per gli altri, si usa soprattutto per le relazioni sentimentali, qui sembra “ghosting” familiare.
«Non conoscevo questo termine, ma mi colpì molto un articolo del New Yorker che parlava di una nuova tendenza dei figli che si separano dai genitori, e per me si accompagna a una raccolta di saggi di Rachel Cusk, Coventry, in riferimento al luogo dove i genitori mandano i figli, per allontanarli un po’; Cusk racconta poi la decisione dei figli di restare in questo luogo, di tagliare i ponti. In Italia c’è poca letteratura su questo tema, penso a Le parole tra noi leggere, di Lalla Romano, dove c’è una cesura molto forte tra una madre e un figlio».
Andare a Coventry, fare ghosting, il romanzo mostra questa scelta come una forma di vendetta etica, di diritto a staccarsi da certe persone.
«Penso sia un diritto di tutti, a qualsiasi livello, staccarsi da rapporti tossici, in ogni modo, non rispondendo ai messaggi o bloccando sui social network. Nella famiglia però i legami tossici sono più difficili da rompere, questa difficoltà mi interessava per il libro».
Il libro, prima di venire pubblicato in Italia, è stato venduto in diversi paesi del mondo alla scorsa Fiera di Francoforte. Evidentemente tocca un tema sensibile a livello globale.
«So di reazioni dai paesi del Sud e da quelli del Nord molto diverse. Nei primi, dove c’è un legame più cattolico con le famiglie, è qualcosa di simile a un affronto, mentre nei paesi del Nord la reazione è più naturale, forse perché il tabù non esiste, penso agli Usa, dove genitori e figli possono decidere di non vedersi senza fare barricare. Conta il territorio sterminato, ma pure la cultura».
Il padre è un “padre padrone” con derive vittimiste da “passivo aggressivo”. Ne ha conosciuti di così?
«È il personaggio meno autobiografico del libro, che incarna il patriarcato, un sistema di controllo totale sugli altri».
Più che un uomo sembra un regime totalitario tascabile, viene citata una tara fascista, oltre a elementi psicotici, ma io ho pensato ai più recenti modelli di controllo della vita altrui dei paesi comunisti dell’Est.
«Vero, penso a Paranoia di Luigi Zoja che mette insieme Stalin e Hitler non per equipararli, ma per dire che il dominio è fondato sulla paura come stato di diritto e oggi riguarda la vita di molti che devono ancora ribellarsi; non parlo solo delle donne, anche noi maschi dobbiamo farlo. Per questo ho voluto che il narratore fosse maschio, per rompere il vero tabù, e cioè che un maschio può mettere in discussione questo sistema, può essere anche diverso. Rifiutare l’eredità».
Veniamo alla madre, è vittima ma non fa mai la vittima, non teatralizza, a tratti è acquiescente con il marito.
«Di molte famiglie si può decidere se raccontare i momenti belli e nascondere quelli brutti oppure mettere insieme quelli brutti, allucinanti, in una costellazione. Questo è quello che fa il romanzo. Prima si parlava di ghosting, e cioè fantasmi, questo è un romanzo di fantasmi e il fantasma principale è lei, che viene annichilita dal marito, che le fa perdere le amiche, le controlla le telefonate… riduce a nulla ogni sua attività».
Qual è il problema principale, in termini reali, del fenomeno che oggi chiamiamo patriarcato?
«Esiste ancora una società che legittima e considera normale che gli uomini possano cedere alla spinta interiore dell’aggressione animale, che tutti abbiamo dentro e il modello del patriarcato lascia agire. La rinforza, anzi, legittimandola come per legge. Antonio Tabucchi parlava della confederazione delle anime, dove a volte una delle anime che uno ha prende il sopravvento. L’anima del patriarcato va tenuta a freno».
A fine lettura ho avuto l’impressione che la violenza da me percepita, nel libro, fosse superiore agli episodi realmente raccontati.
«Qui c’è la differenza tra una storia vera e la vera letteratura, che a differenza del memoir o della non-fiction non deve accumulare fatti, dati, eventi per avere la forza sufficiente di stare davanti al lettore. Certo che ci sono storie più violente di quelle che ho raccontato, purtroppo ogni giorno, ma la letteratura può prenderne poche e trasformarle in un incubo da far esplodere dentro il lettore o la lettrice».
Qual è il primo insegnamento ai suoi corsi?
«Parlo di Attention seeking di Adam Phillips, che parla dell’importanza di dare attenzione alle cose cui non abbiamo dato peso, magari riaffiorano nei sogni, in un libro letto, un film, in una interpretazione, nel dialogo con qualcuno; poi, con la scrittura, ti rendi conto che sono i dettagli forse più importanti per il tipo di storia che vuoi scrivere. Per questo la scrittura è sempre sbalorditiva, perché può sorprenderci nell’illuminare qualcosa che ci era sfuggito e avevamo magari sotto gli occhi».
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