Gaza, la cinica provocazione del Trump2

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Eravamo preparati agli “shock and awe” (scossoni e panico) preannunciati con la solita prosopopea da Donald Trump. Ma non fino a questo punto. L’acme è stata raggiunta dalle sue dichiarazioni (estemporanee?) sulla trasformazione di Gaza nella Riviera del Medio Oriente, suscitando grande soddisfazione nel premier israeliano Benjamin Netanyahu in visita alla Casa Bianca. Ma forse è l’unico ad avere gioito per questa assurda e cinica proposta. Perché, ad aggravare il tutto, essa è stata accompagnata dalla richiesta di allontanare “temporaneamente” la popolazione palestinese per permettere una migliore e più veloce (25/30 anni?) ricostruzione degli oltre 2/3 di edifici rasi al suolo dall’esercito israeliano.

Insomma non un esodo volontario, ma una vera e propria deportazione (un po’ come con gli immigrati messicani) nei paesi vicini. A nessuno è sfuggita in questi giorni la drammatica marcia di ritorno a piedi dei quasi 700 mila palestinesi obbligati all’inizio della guerra a lasciare il nord della Striscia per permettere ai militari di Tel Aviv di demolire meglio case e tunnel in cui si nascondevano i terroristi di Hamas. Per paradosso la eventuale cacciata dei palestinesi dai loro poveri e risicati territori fa la pari con il dichiarato obiettivo di Hamas e dei suoi padrini iraniani di ributtare a mare gli israeliani che dopo il 1948 hanno preso il controllo dell’ex territorio palestinese.

Se quella di allora è stata per i palestinesi una “nabka”, una catastrofe, la proposta del Trump2 è, se possibile, ancora più distruttiva. Per varie ragioni. La prima è quella dell’opposizione di tutti i paesi arabi della regione ad accogliere palestinesi. A dire la verità la questione palestinese è stata quasi sempre utilizzata dai Paesi arabi per motivi strumentali: creare coesione fra di essi in funzione anti israeliana con il consenso delle masse popolari ostili alla presenza straniera di gente cacciata dall’Europa a seguito dell’olocausto. Ma in realtà gli stessi palestinesi non sono mai stati realmente amati e accettati dai Paesi vicini. Basti pensare alle stragi di rifugiati palestinesi nei campi profughi di Sabra e Chatila in Libano nel 1982 o le precedenti repressioni in Giordania (il cosiddetto Settembre Nero del 1970) dei palestinesi fuggiti dopo la vittoriosa guerra di Israele contro i paesi arabi nel 1967. Tuttavia oggi di fronte alla provocazione trumpiana la risposta dei Paesi della regione non poteva che essere un coro di no ed in particolare da parte di Giordania ed Egitto esplicitamente menzionati da Trump. E ciò malgrado il ricatto economico che il presidente americano ha fatto balenare con il decreto di blocco delle spese di cooperazione e sviluppo degli Usa. La Giordania infatti riceve annualmente 1,4 miliardi di dollari e l’Egitto oltre 1 miliardo. Inoltre il rischio di instabilità politica nel Medio Oriente crescerebbe enormemente in caso di espulsione massiccia dei palestinesi, sia per l’impossibile convivenza con le popolazioni locali nei paesi vicini, sia per una ripresa massiccia di azioni di terrorismo in tutta la regione e non solo. Una delle follie della proposta del Trump2 sta proprio nella sottovalutazione dei movimenti terroristici che potrebbero nascere dalla sconfitta di Hamas: il desiderio di vendetta nella popolazione palestinese è infatti oggi altissimo.

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Sia l’America che l’Europa potrebbero verosimilmente diventare oggetto di nuovi distruttivi attacchi. Di qui si spiega anche il rifiuto dei paesi dell’UE di appoggiare un tale folle piano, in disprezzo del diritto internazionale e di ogni regola di prudenza politica. Poiché la sola proposta indebolisce anche l’ambizioso progetto del Trump1 e cioè i cosiddetti accordi di Abramo che tendevano a fare dialogare e addirittura cooperare i paesi sunniti arabi, in particolare l’Arabia Saudita, con Israele. Accordi messi in crisi dall’attacco di Hamas e resi ancora più problematici dalle incredibili uscite del Trump2.

Infine siamo tutti coscienti che l’attuale cessate il fuoco fra il governo di Tel Aviv e la dirigenza di Hamas si regge su un accordo estremamente fragile. Basta un nonnulla per ritornare alla guerra, soprattutto alla luce della spettacolarizzazione della liberazione a pizzichi e bocconi degli ostaggi israeliani.

Alla fine di questa prima fase di cessate il fuoco il bilancio sarà di 33 ostaggi (di cui 8 dati per morti) liberati dai terroristi e di 1900 condannati palestinesi prelevati dalle carceri israeliane. Ora stanno iniziando le trattative per passare alla seconda fase con la liberazione degli ultimi ostaggi e di un consistente numero di prigionieri palestinesi, il tutto accompagnato dal ritiro completo da Gaza dell’esercito israeliano.

La provocazione di Trump2 rimescola tutti i giochi e le prospettive di pacificazione, rendendo altamente probabile una rottura della tregua con conseguenze inimmaginabili. Per noi europei la gestione caotica della crisi Mediorientale da parte di Donald Trump è fonte di un’enorme ansia sulle iniziative del presidente americano verso l’altro fronte di guerra, quello fra Russia e Ucraina.

Cosa salterà fuori dal cilindro del tycoon di Washington? Meglio prepararsi per tempo e stringere gli europei attorno a Kyiv: meglio prima che poi, dovremo prenderci le nostre complete responsabilità.



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