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Cédric Charbit da Saint Laurent, Stefano Cantino da Gucci, Gianfranco Gianangeli da Balenciaga. Da Ferragamo è in uscita Marco Gobbetti, mentre da Jil Sander è arrivato Serge Brunschwig. Il valzer delle poltrone che è ormai caratteristica dei vertici creativi della moda, contagia anche quelli dirigenziali (o forse è il contrario). E allora; nello scacchiere delle alte cariche, quante sono quelle occupate dalle donne?
Silvia Onofri, è stata di recente nominata CEO di Miu Miu, un passato da Bulgari, Bally e alla dirigenza di Napapijri, mentre Benedetta Petruzzo è da ottobre Managing Director di Christian Dior Couture. Simona Cattaneo è Fragrance e Beauty President di Chanel dallo scorso autunno, e da Antonio Marras è arrivata Barbara Calò come nuova amministratrice delegata. In Italia, gli ultimi dati che si hanno a disposizione sulla presenza femminile nelle posizioni apicali del settore moda, sono rasserenanti (ma non entusiasmanti). Stando all’indagine Donne e Moda: il Barometro 2024, quarta edizione di un report realizzato dall’ufficio studi PwC Italia in collaborazione con Il Foglio della Moda e pubblicato lo scorso anno, si è registrata una leggera crescita della componente femminile nelle posizioni ai vertici del settore, tuttavia ancora molto deve essere fatto per raggiungere la parità di genere. L’osservatorio – redatto dalla visura di 105 aziende associate alla Camera Nazionale della Moda Italiana – sottolineava come nel 2023 le donne avessero rappresentato circa un terzo dei membri dei Consigli di Amministrazione delle imprese di moda, secondo un dato che segnava un positivo del 29% rispetto a quello rilevato nella prima edizione dell’indagine nel 2020. “La presenza femminile negli organi societari delle imprese del settore è aumentata di 3 punti percentuali, segno di un lieve cambiamento, ma è fondamentale implementare nelle aziende vere politiche di gender equality – commentò all’epoca della pubblicazione del report la Partner PwC Italia, EMEA Luxury Community Leader, Erika Andreetta –. In questo ambito l’Italia è allineata alla media europea, ma ancora distante da quanto avviene ad esempio negli Stati Uniti che hanno già raggiunto il 40% di donne nei CdA”. Nel report si leggeva di come l’Italia fosse anche un passo indietro rispetto a Francia e Inghilterra, ossia i paesi europei che si distinguono per una maggiore presenza femminile all’interno dei CdA, con rispettivamente il 47% e il 34% di donne ai vertici.
Molto interessanti erano anche i dati dell’indagine, raccolti da Confindustria moda e Sistema moda Italia, relativi all’occupazione femminile nel tessile e abbigliamento, dove la maggior parte delle donne svolge ruoli impiegatizi o operativi, con le quote relative alle donne in posizioni dirigenziali a diventare progressivamente minoritarie. Più o meno lo stesso quadro emerso anche nel settore conciario che, nel 2023, ha registrato il 20% di occupazione femminile, con solo il 9,3% di donne in cariche esecutive e dirigenziali.
Insomma, le basi di un cambiamento sembrano esserci, ma siamo ancora ben lontani dall’avere un’adeguata rappresentanza femminile nelle stanze dei bottoni e se si guardano le alte cariche dei principali gruppi del lusso internazionali, si nota come il quadro sia dipinto ancora molto al maschile. Da Kering, secondo gruppo del lusso mondiale e proprietario di Gucci, Saint Laurent, Bottega Veneta, Balenciaga e McQueen, i CEO delle maison di cui sopra sono tutti uomini, nonostante la presenza della fuoriclasse cesenate Francesca Bellettini, dal 2023 Deputy CEO del gruppo di François-Henri Pinault, e nonostante il colosso sia stato nel 2010 tra i primi firmatari del Women’s Empowerment Principles, ossia un’iniziativa di UN Women e dello UN Global Compact che, in linea con i principi promossi dalle Nazioni Unite, incoraggia l’avanzamento delle donne sul posto di lavoro e nella comunità. Da LVMH, la situazione non cambia di molto e fatta eccezione per Delphine Arnault, Pascal Lepoivre, e Séverine Merle, rispettivamente CEO di Christian Dior Couture, Loewe e Celine, le altre maison del super gruppo sono a guida maschile.
Certo, ci sono molte cariche dirigenziali al femminile e, come si legge ad esempio sul sito di LVMH, dal 2007 la percentuale di donne che ricoprono posizioni chiave all’interno del gruppo è passata dal 23% al 46%, con il 65% dei dipendenti in posizioni manageriali ad essere rappresentato da donne, di cui 18 CEO, ma il proverbiale “soffitto di cristallo” sembra ancora lontano dall’essere abbattuto. Come va dal punto di vista creativo? Forse ancor peggio e da quell’ormai noto tableau pubblicato da 1Granary in occasione della nomina di Seán McGirr alla direzione di McQueen, poco è cambiato. Louise Trotter si è aggiunta al portfolio di Kering dopo l’abbandono di Matthieu Blazy per Chanel, mentre da LVMH si distinguono Maria Grazia Chiuri da Dior, che insistenti voci di corridoio vorrebbero a breve in uscita, e Sarah Burton da Givenchy, nominata a settembre alla guida del marchio fondato da Hubert. Poche le donne anche alla guida di altri big brand. In casa Richemont c’è il Chloé di Chemena Kamali, da Capri Holding il Versace di Donatella, naturalmente Miuccia Prada al timone delle sue Prada e Miu Miu, e Stella McCartney nella sua eponima griffe, da poco tornata indipendente.
Beninteso che, come vi raccontavamo qui, le alte posizioni si reclamano in base al merito e non al genere, eppure il percorso delle donne ai vertici della moda sembra ancora tortuoso. Un paradosso se si pensa che, storicamente, moltissime sono state le donne che hanno immaginato e progettato, spesso con grande lungimiranza, la moda, si vedano Coco Chanel e Elsa Schiaparelli, Jeanne Lanvin e Madeleine Vionnet o, da noi, l’iniziatrice di una moda nazionale svincolata da quella francese Rosa Genoni, e quella Maria Monaci Gallenga che fu tra le prime promotrici del gusto italiano. Perché in fondo le donne erano (e ancora in parte sono) le principali interlocutrici della moda, e forse sarebbe giusto vederle più rappresentate anche tra le fila di chi la moda la amministra, immagina e crea.
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