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Gli imprenditori denunciano il racket della ‘ndrangheta ma la tendenza è minoritaria. E a Papanice scritte contro le forze dell’ordine
Imprenditori e commercianti calabresi denunciano, con sempre maggiore frequenza. Si registra finalmente un’inversione di tendenza in territori difficili, messi sotto scacco dalla ‘ndrangheta. La conferma viene anche dai nuovi arresti per estorsione e tentata estorsione con aggravante mafiosa eseguiti dalla polizia nella Sibaritide. Nella stessa area, nelle scorse settimane era scattata un’altra retata contro le cosche della zona, i cui tentacoli si erano allungati sui lavori per il terzo megalotto della strada statale 106, uno degli appalti più importanti attualmente in Calabria.
Dalle conversazioni intercettate nel corso di quell’inchiesta, in particolare, emergeva che i dipendenti della ditta finita nel mirino affermavano che in Calabria è “matematico” che le cosche impongano estorsioni sui lavori pubblici. E che la situazione è peggiore rispetto alla Sicilia. La “regola” è quella del tre per cento. A tanto ammonta la tangente imposta dalla ‘ndrangheta sui lavori pubblici e privati. Un sistema che si può scardinare soltanto con la denuncia.
QUALCOSA CAMBIA
Qualcosa sta cambiando, però, grazie alla credibilità degli inquirenti. Pensiamo all’impulso dato alla lotta al crimine organizzato dalla Dda di Catanzaro guidata dal procuratore Nicola Gratteri, la cui eredità sarà senz’altro raccolta dal procuratore Salvatore Curcio. Un’aggressione giudiziaria senza precedenti alle cosche della Calabria mediana e settentrionale e alla trafficata zona grigia che orbita attorno ai clan. Lo abbiamo visto anche a Cutro, che negli ultimi decenni ha assunto una dimensione da capitale mafiosa, consegnatale dalle inchieste delle Dda di mezza Italia. Un anno fa la retata anti racket scattata dopo la ribellione degli imprenditori vittime. Subito dopo, il corteo anti ‘ndrangheta con cui la città si è schierata a sostegno dei denuncianti, per non farli sentire isolati.
NUOVO CLIMA
Gli importanti risultati operativi e processuali raggiunti da forze dell’ordine e pm antimafia hanno contribuito a rafforzare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, peraltro messa a dura prova dopo gli arresti di “infedeli”, tra cui anche magistrati. Basti pensare al giro di corruzione giudiziaria scoperchiato con l’inchiesta “Genesi”.
Il mutato clima ha favorito, negli ultimi anni, nuove collaborazioni con la giustizia, in passato mai manifestate con tale ampiezza. Si pentono anche figli di boss. Tutto ciò ha incrinato il mito della invulnerabilità e invincibilità della ‘ndrangheta, tanto più che nella rete della giustizia sono finiti importanti latitanti, i provvedimenti cautelari sono stati doppiati con misure patrimoniali che hanno colpito al portafogli i clan ed è stato messo in crisi un modello culturale.
Certo, non bisogna lasciarsi andare a trionfalismi. La tendenza è ancora minoritaria e da altre inchieste, anche recenti, è emerso che le vittime non denunciano. La “regola”, purtroppo, è quella evocata nelle intercettazioni captate dalla Dia e sono ancora pochi gli imprenditori che hanno il coraggio di ribellarsi al diktat della ‘ndrangheta. Anche dalle carte dell’inchiesta che ha portato ai tre arresti di Castrovillari e Cassano allo Ionio viene fuori che non tutte le vittime hanno denunciato. Qualcuno, visibilmente scosso dopo le richieste degli esattori dei clan, a colloquio con gli inquirenti ha preferito non presentare querela.
IL CASO PAPANICE
Sono di nuovo apparse scritte contro le forze dell’ordine a Papanice, quartiere periferico di Crotone. “Vaffanculo sbirri bastardi”. Una sfida allo Stato che non si riproponeva, forse, dai tempi della faida del 2008, quando comparvero sui muri frasi inneggianti a Luca Megna, il figlio del boss Domenico Megna, ucciso in un agguato la vigilia di Pasqua. Un territorio, quello di Papanice, in cui è stanziata una cosca in grado di coniugare arcaicità e modernità, come emerso dall’inchiesta che nel giugno 2023 portò alla maxi operazione Glicine, da cui sono scaturiti tre processi tuttora pendenti.
Il boss di Papanice era quello che aveva fiutato l’affare del trading clandestino online e i cui intermediari reclutavano hacker al servizio del clan. Una cosca che è stata colpita a più riprese negli ultimi tempi e la “risposta” delle nuove leve o dei simpatizzanti potrebbe anche essere questa.
Sembrano lontani i tempi in cui si applaudiva alle forze dell’ordine, come accadde a Vibo Valentia nel dicembre 2019 all’indomani dei 330 arresti dell’operazione Rinascita. Nessun trionfalismo, dunque.
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