La paura del giudizio degli altri influenza le nostre vite in modo molto più incisivo di quanto si sarebbe portati a pensare, con conseguenze importanti sul nostro benessere e sul modo con cui ci si relaziona gli uni agli altri. In una gigantesca «finzione collettiva» che non fa bene a nessuno, se non a chi ha l’interesse di mantenerci in uno stato di dipendenza da approvazione continua. È questo il filo conduttore del nuovo libro dello psicologo Thomas Leoncini – noto per il bestseller L’ansia del colibrì – L’importanza di non piacere (Sperling & Kupfer, 208 pagine, 18,90 euro, in libreria dal 18 febbraio). Ne parliamo con l’autore.
Come mai, all’inizio del libro, lei si sofferma sul significato della parola «piacere», che in latino è affine a «placare»?
«Perché abbiamo perso di vista il vero significato delle parole. Non parlo solo del loro valore razionale, ma anche di quello simbolico, emotivo, inconscio. Spesso pensiamo di poterle usare con leggerezza, senza conseguenze, ma le parole sono chiavi: aprono porte dentro di noi, risvegliano significati dimenticati, richiamano simboli che abbiamo interiorizzato fin dall’infanzia. Ogni termine porta con sé più di quanto immaginiamo, e l’etimologia a volte rivela verità sorprendenti. Prendiamo la parola “piacere”, appunto, la cui origine è “placare”. Ma placare cosa? Un bisogno insaziabile di approvazione, di riconoscimento, che oggi sembra più forte che mai. Viviamo in un’epoca in cui l’ossessione per il consenso ha raggiunto livelli estremi. Il problema è che cercare di piacere agli altri ci porta a guardare sempre fuori, mai dentro di noi. Ma Jung diceva: “Chi guarda fuori sogna, chi guarda dentro si sveglia”. Guardarsi dentro significa infatti affrontare il nostro mondo interiore, decifrare quei segnali nascosti che potrebbero addirittura anticipare eventi futuri, aiutarci a comprendere meglio noi stessi e il nostro posto nel mondo. Se invece mettiamo l’altro al centro, smettiamo di essere soggetti e diventiamo oggetti del suo giudizio. Finiamo per vivere la vita degli altri, sacrificando la nostra autenticità. È il primo passo verso il malessere, verso la mancata realizzazione di sé».
Viviamo tempi difficili…
«La società ci spinge a credere che seguirne i canoni sia l’unico modo per affermarci, ma in realtà ci sta dicendo l’esatto contrario: “Diventa uguale agli altri per sentirti speciale“. Un paradosso che nasce proprio dalla perdita del significato profondo delle parole. Pensiamo al desiderio di piacere agli altri: cinquant’anni fa, questo si limitava a un piccolo cerchio di conoscenti, forse una cinquantina di persone. Oggi, nell’era digitale, l’asticella si è alzata vertiginosamente: si cerca approvazione da centinaia, migliaia, milioni di persone. Influencer, celebrità e utenti comuni si ritrovano a rincorrere consensi in un’arena virtuale senza confini. Risultato: un’inevitabile insoddisfazione. Non perché non otteniamo abbastanza approvazione, ma perché questa rincorsa ci allontana dalla nostra vera missione: sviluppare il nostro potenziale unico. Quando ci discostiamo da questa ricerca autentica, i segnali del malessere si fanno sempre più ingombranti: ansia, attacchi di panico, un senso di vuoto sempre più diffuso. Non è un caso se nei licei le ambulanze vengono chiamate sempre più spesso per studenti sopraffatti dall’ansia. È un fenomeno allarmante, ma ancora troppo poco discusso. E tutto nasce da un problema di fondo: vogliamo piacere agli altri, ma chi sono questi “altri”? Un’entità indefinita, un miscuglio di opinioni, giudizi e aspettative impossibili da soddisfare. La vera sfida è un’altra: smettere di inseguire l’approvazione esterna e tornare a dare valore alle parole».
Per spiegare quale sarebbe il vero scopo di ciascuno, cioè diventare la versione migliore di se stessi, lei fa l’esempio di una primula che non dovrebbe lasciarsi convincere a fingersi una rosa.
«Sì. Ogni persona ha un potenziale che attende di sbocciare. Ma chi si lascia deviare del percorso per corrispondere alle aspettative altrui rischia, magari in una fase avanzata della vita, di guardarsi indietro e rendersi conto di aver vissuto l’esistenza di qualcun altro».
Lei sostiene che a correre meno rischi di negare la propria natura sarebbero gli introversi. Per una volta, insomma, avrebbero un vantaggio.
«In Oriente, è l’estroversione a essere vista con una certa diffidenza, mentre in Occidente avviene il contrario: l’introversione è spesso considerata un’anomalia, una caratteristica da correggere. Chi ha un ricco mondo interiore può quindi sentirsi costretto ad adattarsi per non essere escluso, e questo può rivelarsi estremamente complicato. C’è però un aspetto positivo: la realizzazione di sé non ha una scadenza. L’inconscio ha una pazienza infinita. Possiamo ritrovarci e riscoprirci anche a cinquanta, sessant’anni. Oggi l’aspettativa di vita si è allungata, la medicina ha fatto passi da gigante, e questo offre a molti la possibilità di rinascere, di esprimere il proprio potenziale in qualsiasi momento. Un introverso che per anni ha cercato di adattarsi forzatamente a un mondo estroverso può sempre tornare a se stesso. L’ansia, in questo senso, è un segnale fondamentale. È un sintomo predittivo, un campanello d’allarme che indica la necessità di un cambiamento. Nel breve termine può essere devastante, certo, ma nel lungo termine è una spinta preziosa: è l’indicatore che qualcosa di essenziale è stato represso, che il nostro vero sé sta cercando di emergere. L’ansia non può diventare cronica perché è un messaggio, una richiesta di trasformazione. È solo attraverso di essa che possiamo arrivare a comprendere quando è necessario un cambiamento radicale. Non esiste altro sintomo così potente nel favorire una vera evoluzione psichica. E qui torniamo al punto centrale: il potenziale naturale di una persona non ha una data di scadenza. È come una primula che sboccia quando è il momento giusto. Dire che sia “troppo tardi” è una grande menzogna. Certo, potrebbero esserci limiti fisici o pratici, ma sul piano dell’inconscio il meccanismo funziona perfettamente in qualsiasi fase della vita. Il vero nemico, più dell’età, è la paura che ci immobilizza, che ci spinge ad accettare qualsiasi abitudine pur di non affrontare il cambiamento. Ed è proprio questo il maggiore ostacolo alla realizzazione di se stessi».
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