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Il simbolo del Terrore nella Lezione di storia di Luigi Mascilli Migliorini il 15 febbraio al Teatro Donizetti
Maximilien Robespierre, giovane avvocato della lontana provincia francese, divenne tra il 1793 e il 1794 il simbolo del Terrore rivoluzionario, prima di essere ghigliottinato a sua volta dai rivali che lo temevano, «ma non fu né un macellaio né un anticipatore di Lenin o Stalin. Il primo valore, per lui, era la libertà». È l’opinione di Luigi Mascilli Migliorini, accademico dei Lincei e professore emerito all’Università L’Orientale di Napoli, che sabato (15 febbraio 2025) al Teatro Donizetti, terrà la Lezione di storia: «Robespierre: al cuore della Rivoluzione».
Professore, perché a Robespierre fu data la responsabilità del Terrore? Non era un dittatore, ma solo un membro, pur influente, di un Comitato per la salute pubblica numeroso.
«Vero. Non c’era una piramide gerarchica formale alla cui cima sedesse Robespierre. E non era solo. Tuttavia durante il Terrore ci si rivolgeva a Robespierre per sapere cosa si doveva fare, si aveva paura di lui, e lui in qualche modo determinava la sorte dei singoli personaggi. Anche oggi, nei partiti politici, non è detto che gli uomini di maggior rilevanza formale siano quelli che veramente comandano. Non era nemmeno uno straordinario oratore, anzi era un po’ noiosetto, ma aveva una specie di capacità elettrica di cogliere gli umori delle masse e rivestirli di una forma politica».
Secondo Albert Mathiez il Terrore fu necessario per salvare la Francia, minacciata dalle monarchie europee in armi e da coloro che volevano scendere a patti col nemico. È anche la sua lettura?
«La mia lettura non può essere distante da quella di un grande storico come Mathiez. Tuttavia io rovescerei il problema rispetto a lui, che era anche “militante”. Nella primavera del 1793 la Francia rivoluzionaria era molto fragile: la guerra malamente dichiarata l’anno prima dai girondini aveva reso precario lo spirito rivoluzionario e instabile la situazione interna. C’era il rischio che truppe straniere a Parigi rimettessero sul trono Luigi XVI. Ma il Terrore era assolutamente necessario? Sicuramente ha salvato la Rivoluzione. Ma si poteva fare in un’altra maniera?».
«Noi abbiamo la prova di una fragilità. Non abbiamo la controprova che il Terrore fosse necessario. Non possiamo non dire quello che diceva Mathiez, ma lui lo diceva in modo assertivo. Io non sono sicuro che la morte di Danton abbia realmente rafforzato la Francia rivoluzionaria».
Il Terrore fece più vittime di altri periodi rivoluzionari?
«No. Il Terrore bianco, la resa dei conti successiva alla caduta di Robespierre, fece molte più vittime, di questo siamo abbastanza sicuri».
Robespierre propose una Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino che prevedeva eguaglianza di fronte alla legge, tutela dei poveri, tassazione progressiva, istruzione per tutti, limitazione della proprietà privata in nome del bene comune. Difficile conciliare tutto ciò con l’immagine invalsa di pazzo sanguinario.
«Non era assolutamente un pazzo sanguinario. Il suo orizzonte era quello di una repubblica che oggi definiremmo emancipatrice. Nulla a che vedere col socialismo, anche se poi nel ‘900 divenne per alcuni l’eroe che, se lo avessero lasciato fare, avrebbe realizzato il socialismo in Francia. Era un rousseauiano nemmeno tra i più accesi, convinto che dentro la questione della libertà ci fosse quella dell’eguaglianza, che fosse inevitabile un ritocco alla proprietà privata. Senza enfasi leniniste o espropri generalizzati, ma con buon senso, per rimediare a disparità allora spaventose. Lui parte dalla libertà per arrivare all’eguaglianza, non viceversa. Questo lo rende appartenente a famiglie politiche molto lontane da quelle del socialismo realizzato».
«Certo. E se c’è una cosa che va riconosciuta a Robespierre (al di là del saldo, positivo o negativo, del Terrore), è che la rivoluzione non poteva fallire. Lui non è un ribelle, nemmeno un rivoluzionario di professione, come Stalin o Lenin o Gramsci. Non è uno scamiciato come Marat o Danton, è un uomo all’antica, “per bene”. Ed è un uomo che, trovatosi dentro la macchina della rivoluzione fin dall’inizio, sa che questa macchina deve arrivare dall’altra parte del fiume, non può fare marcia indietro né fermarsi. E tutto questo in nome dei valori della Rivoluzione, il primo dei quali è la libertà. C’è una frase bellissima: “La rivoluzione è illegale come la libertà stessa”. Alla rivoluzione non si può chiedere la sintassi dei tempi tranquilli».
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