Anche se in Italia ne abbiamo parlato ancora poco, nel mondo sta prendendo forma un’idea molto interessante, già esistente in numerose città estere, come ad esempio Plymouth in Inghilterra, Colonia in Germania, Vic in Spagna, Buenos Aires in Argentina e tante altre, quella delle “città compassionevoli” oppure caring community. Con il termine si indicano una serie di comunità, che possono essere più o meno grandi, che riconoscono che prendersi cura gli uni degli altri in momenti di crisi e di perdita non è un compito esclusivo dei servizi sanitari e sociali, ma è una responsabilità di tutti/e.
È un modello di salute pubblica che incoraggia la partecipazione comunitaria nella cura delle persone, promuovendo il benessere e il rispetto reciproco tra gli abitanti e adottando pratiche e politiche che favoriscono la solidarietà, l’inclusività e il supporto agli individui più vulnerabili.
In queste città si cerca di affrontare le sfide sociali, come la povertà, l’isolamento sociale e la discriminazione, creando reti di supporto per chi ne ha bisogno. Possono esserci iniziative come programmi di assistenza sanitaria generalizzata, spazi pubblici inclusivi, progetti di volontariato e supporto a chi soffre di malattie mentali o dipendenze. L’obiettivo è costruire una comunità in cui le persone si sentano accolte e rispettate, e dove c’è un impegno collettivo a prendersi cura del prossimo.
Affinché questa cura estesa alla comunità possa essere efficace, le reti di solidarietà devono essere preparate a sostenere tale ruolo, apprendendo cosa dire e cosa fare per essere d’aiuto a chi affronta l’esperienza della malattia, della vecchiaia, del morire e del lutto. Le città compassionevoli si propongono di soddisfare i bisogni delle persone anziane, di chi convive con malattie potenzialmente mortali e di chi ha subìto una perdita, non solo dal punto di vista sanitario.
Inoltre, in queste città ci si preoccupa del rispetto delle differenze sociali e culturali. L’emarginazione (causata da razzismo, sessismo, discriminazione…) è una preoccupazione, perché crea morte e perdita nella vita altrui, talvolta simbolicamente, talvolta concretamente e fisicamente. Infine, le città compassionevoli si fanno carico di garantire cure palliative e supporto al lutto, e di inserirli nella loro pianificazione politica di governo locale, evitando che la morte e la perdita restino esperienze private e individuali, promuovendo piuttosto la solidarietà, il rispetto e la fiducia nella cittadinanza, la dimensione comunitaria e conviviale e l’ampliamento delle reti di collaborazione. La maggior parte di esse, ma non tutte, utilizza la Carta delle città compassionevoli come base per sviluppare politiche e azioni sociali e, spesso, per sostenere pubblicamente coloro che convivono con malattie, perdita e dolore, organizzano eventi o festival.
Per diventare una città compassionevole è necessario intraprendere una serie di principi e azioni concrete che permettano poi di entrare nella rete internazionale.
Il tema è stato il centro dell’evento conclusivo del progetto “Verso una città compassionevole: Lodi si narra”, che si è svolto a Lodi il 1° febbraio 2025 per condividere i risultati del progetto condotto nel 2024 e le prospettive per il 2025, con l’obiettivo di realizzare la caring community di Lodi. Il progetto è sostenuto, oltre che dall’Amministrazione comunale, anche da numerose associazioni del territorio e punta sulla cosiddetta “Medicina narrativa”, approccio alla pratica medica basato sulla partecipazione attiva delle persone coinvolte che valorizza le storie e le narrazioni delle/dei pazienti come parte integrante della cura e della comprensione della salute, riconoscendo che le esperienze individuali, le emozioni e le prospettive sono fondamentali per una comprensione più completa della singola condizione di salute.
L’evento è stato in gran parte condotto da Danila Zuffetti, direttrice del programma caring community lodigiana e fondatrice di NaMPaC Model (Narrative Medicine in Palliative Care). Come lei stessa racconta, ciò che l’ha ispirata per la realizzazione del progetto sono state le “città invisibili” narrate da Italo Calvino, connesse da relazioni e da rapporti umani, che mettono in contatto una rete di persone e offrono aiuto a chi si trova in difficoltà.
Il progetto è nato il 1° febbraio 2024 e, a oggi, coinvolge 23 enti, contro i soli 8 di partenza. Ha interessato, e continua a interessare, una comunità intera, grazie a diverse collaborazioni che hanno compreso gli oratori, le scuole, i centri per anziani, il carcere di Lodi e così via, toccando diversi ambiti tra cui quello sociale, sportivo, educativo e culturale.
L’obiettivo è anche quello di estendere l’iniziativa a diverse realtà del Lodigiano (già in atto con le comunità di Codogno, Casalpusterlengo e Massalengo), per diffondere sempre di più l’idea che la compassione possa migliorare la qualità della vita e ridurre le disuguaglianze.
Per fare ciò la comunità deve essere sensibilizzata, in modo tale da rendere tutte/i consapevoli del fatto che, così come si può essere curati, si può essere anche curanti, e aiutare chi si trova in una situazione difficile dalla quale non riesce a uscire. In questo risiede l’importanza di organizzare incontri aperti al pubblico e alle scuole per coinvolgere la popolazione e sfidare tabù, come il tema della morte, una realtà che fa parte della vita di ogni essere umano, spesso ignorata o evitata nelle conversazioni quotidiane. Tuttavia, parlarne può aiutare a ridurre la paura e l’ansia che molte persone provano nei suoi confronti, permettendo una maggiore accettazione della sua inevitabilità. A questo proposito, infatti, il 13 settembre 2024 a Lodi è stato organizzato da Danila Zuffetti il cosiddetto “death cafè”, cioè uno spazio culturale dove incontrarsi e dialogare in maniera conviviale sui grandi temi: il senso dell’esistenza, la malattia, la cura, la vita stessa e la morte. L’idea su cui è nato l’evento è quella di costruire comunità resilienti in grado di affermare e sostenere la vita, partendo proprio dalla consapevolezza della vita e della morte. La scelta di discutere del tema della morte sorseggiando un tè o un caffè con una fetta di torta ricalca la visione originaria del sociologo Bernard Crettaz: «Niente segna la comunità dei vivi come la condivisione di cibo e bevande». Bere e mangiare, azioni normali di ogni giorno, contribuiscono infatti a dare all’incontro un’aria di informalità e rilassatezza, mitigando le angosce più profonde. In conclusione, le città compassionevoli non sono solo un ideale lontano, ma una possibilità concreta per il futuro delle nostre comunità. Quando la compassione diventa un valore condiviso, essa ha il potere di trasformare la vita quotidiana, creando spazi dove le persone si sentono ascoltate, rispettate e sostenute. Ovviamente, per far sì che ciò accada, non possiamo aspettare che la compassione arrivi da sola, ma dobbiamo, tutte/i insieme, costruirla attivamente, nelle nostre strade, nei nostri quartieri, nelle nostre vite.
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Articolo di Valeria Ferrari
Attualmente sono una studente del corso triennale in Comunicazione, Innovazione, Multimedialità presso l’Università di Pavia. Ciò che mi piace e mi fa stare bene sono viaggiare e fare sport. Amo impegnarmi al massimo in tutto ciò che faccio e cercare di migliorarmi sempre di più.
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