Il lavoro e le retribuzioni, lo stipendio in welfare: privilegiati i soldi, non il sociale

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di
Giulio Sensi

Ticket e rimborsi, boom dei fringe benefit. È un pezzo di retribuzione per quasi 7 milioni. Ma arriva soprattutto ai dipendenti privati. I piani sui misura dei provider e i dubbi

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Non di solo stipendio vivono i dipendenti in Italia: 6,6 milioni di loro beneficiano anche di incentivi extra stimati in 3,3 miliardi di euro ogni anno. Sono previsti dalla normativa, vengono chiamati «di welfare aziendale» e godono di bonus fiscali. Le aree in cui si possono utilizzare, e quindi spendere, sono attualmente la previdenza complementare, la sanità integrativa, i servizi per l’infanzia e l’istruzione, l’assistenza familiare, i rimborsi di interessi passivi su mutui e prestiti, i trasporti pubblici per andare al lavoro, la cultura, il tempo libero e i cosiddetti «fringe benefit», i buoni spesa da usare in supermercati e acquisti online. «Tutte misure – spiega Valentino Santoni di Percorsi di secondo welfare che ha anche elaborato le stime sulle dimensioni – che dovrebbero andare a integrare il welfare che soffre». Ma riguardano principalmente i dipendenti di imprese private. Per quelli pubblici e i liberi professionisti è un orizzonte praticamente non raggiungibile.

Pratiche diffuse

A più riprese il Parlamento ha introdotto novità che hanno rivisto la normativa per semplificarne l’utilizzo. «Queste pratiche – aggiunge Santoni – hanno aumentato la diffusione nelle imprese, permettendo loro di essere più attrattive e migliorare il clima aziendale. Un fattore non da poco oggi che il turnover è sempre più frequente». Pratiche più diffuse fra le grandi e solide, meno per ora nelle piccole con inferiori disponibilità economiche. Misure richieste anche dai giovani che oggi hanno un rapporto diverso con il mondo del lavoro: non c’è solo lo stipendio, ma anche gli orari e le prestazioni sociali. Questioni sollevate anche dall’Aiwa, l’associazione di rappresentanza del mondo degli operatori. Il presidente Emmanuele Massagli spiega: «Abbiamo sempre sostenuto, come unica associazione di rappresentanza dei provider, che la funzione sia sociale. Da anni proponiamo modifiche all’articolo 51 comma 2 del Testo unico sulle imposte sui redditi per inserire anche la mobilità sostenibile, la possibilità di pagare le spese di affitto dei figli che studiano fuori sede, quelle veterinarie per gli animali domestici, comprendere le assicurazioni vita o la possibilità di destinare il credito agli Enti di terzo settore, di protezione civile o al sistema sanitario. Ora non si può fare. O meglio: se si fa, è tassato come reddito da lavoro».




















































Secondo Aiwa i provider hanno meno marginalità sui voucher e più interesse nel costruire piani di welfare su misura. «A oggi – dice ancora Massagli – i piani di welfare sono cresciuti del 500% dalla modifica che il governo Renzi portò al Testo unico. La normativa si è evoluta perché il welfare legge molto la modernità del rapporto di lavoro». Tutti vi vedono una forte opportunità, anche i sindacati. «Crediamo che sia sbagliato – dice Jorge Torre, responsabile per la Cgil di contrattazione sociale e welfare aziendale – l’approccio che va solo nell’ottica dei buoni spesa carburante e della monetarizzazione. Dobbiamo arrivare a semplificare la norma che è tutta fiscale e fare in modo che si occupi di più dei bisogni delle persone. Sono tanti e non possiamo permetterci di sprecare opportunità, aumentando le diseguaglianze». Anche per evitare che il welfare aziendale sia un lusso di pochi. «Viene usato da aziende che hanno condizioni economiche già buone e i settori più poveri non vedono tutto questo utilizzo», aggiunge Torre. 

E poi c’è il tema sociale. Oggi i fringe benefit, che comprendono anche i voucher carburante e altri strumenti di integrazione al reddito, sono l’incentivo più usato, anche se il più distante dall’idea di welfare. «Quello aziendale – spiega ancora Santoni – prevede molte prestazioni, soprattutto di natura sociale. I fringe per la quasi totalità dei casi sono i buoni acquisto spendibili nelle catene convenzionate con una soglia di spesa che per il prossimo triennio sarà di 2.000 euro per chi ha figli e di 1.000 euro per chi non li ha. Si è creata una distinzione interna e si parla sempre meno di servizi di natura sociale e pratiche per la conciliazione vita lavoro. Sono state fatte esperienze locali che coinvolgono anche piccoli esercenti, ma c’è bisogno di molto impegno e lavoro per questo. Nella maggior parte dei casi prevale la dimensione economica. È una semplificazione eccessiva di quella che potrebbe essere una risorsa per il sistema di welfare italiano. Così diviene una forma di integrazione della retribuzione e sempre meno una misura di supporto a chi ha carichi di cura». Dopo i fringe la seconda voce è il tempo libero, poi viaggi, palestra, sport, abbonamenti vari e servizi per l’infanzia. Tutte voci di spesa importanti, ma il rischio è perdere di vista la sanità e la previdenza, in cui il sistema pubblico fa sempre più fatica. E su cui il welfare aziendale potrebbe dare il suo contributo.

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