Conferenza di Monaco. Sudeti. Invasione della Polonia. Seconda guerra mondiale. Terzo Reich. L’accelerazione impressa da Donald Trump alla questione ucraina e la conseguente estromissione dell’Unione europea dall’intero dibattito sta facendo impazzire Bruxelles e le sue cheerleaders mediatiche. Si scomodano paragoni ridicoli, se in realtà non portassero con sé un bagaglio storico di dolore e tragedia che li rende in realtà completamente fuori luogo e insultanti.
In effetti, però, c’è da capirli i nostri euroburocrati trombati. Non è facile ammettere di essere stati usati e poi abbandonati come pezze da piedi. Due anni di autolesionismo russofobico sostanziatosi in 17 pacchetti di sanzioni che hanno esposto il Vecchio continente alla nuova crisi energetica che stiamo vivendo e trascinato la Germania in una recessione industriale addirittura peggiore di quella del Covid. E, adesso, esclusi dal tavolo che conta. Di più, addirittura destinati a pagare il conto della pax americana imposta da Donald Trump senza confronto, né contraddittorio e che Vladimir Putin sta vivendo come una vittoria su tutti i fronti.
La Russia doveva andare in default e il rublo ridursi a moneta dello Zimbabwe. E invece, ecco che addirittura si ventila un ritorno al G7. Di più, poiché abbiamo assistito anche alla clamorosa retromarcia della Nato sull’ingresso di Kiev nell’Alleanza e all’iperuranio diplomatico di una Casa Bianca che azzarda scenari geopolitici futuri in cui non solo qualche territorio, ma l’intera Ucraina potrebbe tornare sotto controllo di Mosca.
In compenso, vi invito a leggere questo articolo pubblicato giovedì da Bloomberg, il quale spiega – attraverso le parole sotto anonimato di funzionari Usa – come saranno proprio le autorità e i Paesi europei a pagare il conto di pace e ricostruzione. Un conto che, a oggi, viene preventivato in circa 3 trilioni di dollari fra investimenti diretti e tagli alla spesa sociale in favore di quella militare. Un capolavoro che solo l’Ue poteva rendere possibile.
Verrebbe da dire, dilettanti allo sbaraglio. Ma temo che qui ci sia del metodo. E, soprattutto, parecchia malafede che si è ritorta contro agli Achei di Usaid che pensavano di essere i più furbi del mazzo. Ora, attenzione però alla vera criticità in movimento. Sostanziatasi nella giornata di giovedì. E tutta da interpretare. Perché trattasi di questione di approccio. Ovvero, bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto?
Per una volta, lascerò che ad aprire le danze sia l’ottimismo della volontà e non il pessimismo della ragione. E vi dirò che proprio giovedì i futures del gas europeo hanno segnato un -7,83%, massimo calo da gennaio 2024. Fine del bicchiere mezzo pieno, nonostante ieri il calo sia proseguito portando il prezzo sotto la quota psicologica di 50 euro MWh.
Perché allora occorre raffreddare gli entusiasmi? Perché ce lo impone la ragione di questo calo. Giovedì a Bruxelles si è infatti tenuta la riunione del Gas Coordination Group e la delegazione tedesca ha chiesto un’esenzione per l’intero anno in corso rispetto ai requisiti di riempimento degli stoccaggi, i quali dovranno infatti tornare al 90% entro il 1 novembre. Partendo però dalla media europea attuale del 47%, il livello più basso dall’annus horribilis 2022. Quello che obbligò proprio la Germania prima a nazionalizzare Uniper per evitare quella che fu definita la Lehman energetica delle utilities e poi mettere sul piatto un mega-piano di sostegno per imprese e famiglie da oltre 200 miliardi di euro.
E la delegazione tedesca è partita lancia in resta, prima esprimendo preoccupazione per il ruolo che la speculazione potrebbe giocare in estate, in caso quella deadline dovesse essere confermata e forzare campagne acquisti ai prezzi attuali. Poi ricordando come la Commissione Ue abbia promesso ufficialmente di porre rimedio alla situazione. A dare man forte ci hanno pensato Francia e Olanda, mentre la Repubblica Ceca è andata addirittura oltre, chiedendo che i requisiti minimi di stoccaggio divenissero su base volontaria per ogni Stato.
Il problema? La risposta dell’organo operativo Ue è stata tutt’altro che positiva. Non a caso, il calo del prezzo dei futures si è subito ridimensionato, pur continuando a prezzare in positivo quantomeno il regime interlocutorio. Le autorità, infatti, il mese prossimo avevano in programma di presentare una proposta di estensione del regime attuale per altri due anni.
Insomma, Germania e alleati puntano al congelamento di questa ipotesi e alla deroga al regime attuale al massimo entro giugno. Termine passato il quale, se dovesse verificarsi una fumata nera, sarà necessario correre sul mercato per il refill. A quali prezzi, però? Ultima ratio, il raggiungimento di una maggioranza qualificata all’ultimo Consiglio europeo prima dell’estate. Ma vista la delicatezza e le implicazioni della materia, troppi se e condizionali sembrano fare il gioco proprio della speculazione e del suo soffiare sul profilo di rischio.
Ma ecco che il rappresentante della Commissione Ue, proprio sul finire dei lavori, ha gelato gli entusiasmi, dichiarando come le regole attuali già garantiscano un sufficiente flessibilità attraverso la moratoria su una deviazione del 5% dal target richiesto. Alla fine, la concessione: resta il 90% di riempimento, ma la deadline del 1° novembre slitterebbe di un mese.
Morale? Il bicchiere è mezzo vuoto. Dopo 17 pacchetti di sanzioni e la totale insipienza in sede di negoziati per l’Ucraina, a che tavolo continuare a giocare la Commissione Ue? O forse il nuovo calo di ieri del prezzo del Dutch ci dice che Bruxelles ha preso atto del suo ruolo di sedotta e abbandonata e ora sta correndo – in ordine sparso e senza un piano preciso – ai mitologici ripari?
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