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Ne Il diavolo veste Prada uno dei personaggi principali recita, riferendosi alle creazioni degli stilisti: “quello che hanno realizzato, creato, è stato più creativo dell’arte stessa. Perché tu ci vivi dentro la tua vita”. Un’affermazione che, a buon diritto, vale anche per le opere di design industriale.
È la capacità di questi oggetti di inserirsi nella vita quotidiana delle persone che riduce i gradi di separazione tra l’essere umano e l’opera e che, in qualche modo, rende per molti più facile avvicinarsi a questo connubio tra giusto estetico e funzionalità, senza timori reverenziali.
Si tratta di una affermazione ancora più vera se riferita a uno degli oggetti di uso comune più diffusi, di cui nessuno può fare a meno, le cui declinazioni cambiano (nel vero senso della parola) il look e l’atmosfera di uno spazio, anche nell’intimità casalinga, a cui devono essere capaci di adattarsi per soddisfare l’esigenza non solo di apparire “belle” alla vista, ma anche comode – per svolgere la loro funzione primaria: consentire di riposarci.
Sedie, poltrone, divani: l’ABC dell’arredamento da casa e ufficio sono state spesso al centro di decisioni, prese da vari tribunali italiani, a cui i loro creatori si sono rivolti per tutelarsi rispetto alla proliferazione di copie, spesso assolutamente fedeli agli originali, ma che tali non erano affatto. Tutelare questi oggetti, è bene ricordarlo, equivale a preservare e valorizzare tutta quell’attività di studio e ideazione che, per quanto non sia tangibile, è indispensabile per raggiungere quel “bello” che attrae il pubblico e lo spinge a voler acquistare proprio “quel” elemento d’arredo. Il fatto che il risultato sia, in qualche modo, facilmente replicabile, non fa venire meno l’esigenza di tutelare il processo creativo che vi sta dietro, salvo disincentivare quegli investimenti di tempo e denaro che finirebbero per drenare la linfa creativa di chi, per mestiere, ha l’obiettivo di inventare, rivisitare, innovare.
Ciò detto, non tutto ciò che piace al pubblico e “si vende” diventa automaticamente un’opera di design industriale, ovviamente.
Un esempio è dato dal tentativo, ancora non riuscito, di ottenere il riconoscimento della tutela autorale della famosa poltrona Pitagora che i suoi produttori hanno cercato di raggiungere in due distinte cause, nel 2017 di fronte al Tribunale di Torino e poi, nel 2021, a Milano. I giudici sabaudi hanno, a questo proposito, affermato che il fatto che la seduta fosse stata utilizzata per arredare alcuni importanti teatri, cinema, auditorium e sale conferenze in Italia e all’estero provasse “il pregevole successo commerciale di cui ha goduto il modello in esame, ma non anche il riconoscimento del suo valore artistico, essendo confinati i detti riconoscimenti su un piano meramente commerciale”. Una conclusione a cui sono arrivati anche i colleghi meneghini: l’utilizzo nei contesti sopra richiamati è stato ritenuto nulla più che uno sfruttamento della seduta nell’ambito della sua “normale destinazione funzionale e commerciale”.
Sorte differente e più fortunata è toccata, invece, all’iconica Panton Chair di Vitra, che secondo il Tribunale di Milano “ha assunto nel tempo un proprio valore di raffigurazione estetica di concezioni artistiche più generali, di fatto oramai trascendenti la semplice natura di oggetto di arredamento cui la sua funzione originaria la relegava, in quanto anticipatrice dei temi e delle modalità espressive della pop art e capace di riassumere in sé le tendenze di rottura degli anni ’60 in uno stile fortemente individuale del suo autore”. A fare la differenza è stata anche l’inclusione dell’oggetto in collezioni di importanti musei di arte contemporanea: una validazione, quella proveniente dal “mondo dell’arte”, che come già detto in altri articoli di questa rubrica è uno degli indicatori più significativi del valore artistico delle opere di design industriale.
Discorso analogo è valso per la seduta Lounge Chair & Ottoman di Eames, sempre di Vitra, che nel 2012 hanno ottenuto dal Tribunale di Milano il riconoscimento della tutela autorale sulla base di “obiettivi e verificabili riscontri esterni non limitati alla naturale autoreferenzialità di un ambiente ristretto alla sola cerchia dei designers, ma estesi ad un più ampio orizzonte culturale”. La seduta, risalente al 1956, è stata considerata un elemento di arredo a cui era possibile attribuire in maniera unanime una capacità rappresentativa delle tendenze anche artistiche del dopoguerra in America, circostanza che consente di riconoscerle un significato che, ancora una volta, trascende la mera capacità di rendere gradevole e funzionale un prodotto seriale. Tant’è che il modello figura da decenni nella collezione permanente del Museum of Arts and Design di New York.
Sarebbe impossibile non citare, a questo punto, le decisioni che le corti milanesi hanno assunto nel 2011 e (in appello) nel 2013, a proposito delle sedute LC1, LC2, LC3 e Chaise Longue LC4 di Le Corbusier.
Quest’ultime sono state presentate nel 1929 nella prestigiosa manifestazione d’arte contemporanea “Salon d’Automne” a Parigi, a riprova del valore artistico che la societè di beaux arts attribuiva ad esse (la stessa esposizione, negli anni, ha ospitato opere di artisti quali Pierre-Auguste Renoir, Paul Cézanne, Henri Matisse, Paul Gauguin, Pablo Picasso, Mare Chagall, Amedeo Modigliani, Georges Braque, Georges Gimel). Sono poi state esposte presso istituzioni museali e culturali, quali il Barbican art Gallery di Londra, il Centre Pompidou di Parigi, il Museo d’Arte Moderna di Rio de Janeiro e la Triennale di Milano. I giudici hanno affermato che “il fatto che fin dal 1929 dette opere siano riconosciute come espressione del sentimento artistico, oltre che razionale, di le Corbusier… dimostra che tale riconoscimento non è stato e non è dovuto ad una ‘moda’ che… per la sua natura effimera, non può attribuire quel valore artistico che presuppone la durevolezza di giudizio, tale da acquisire il carattere oggettivo nell’ambito della critica e degli esperti dell’arte”.
Simile sorte, per motivazioni sostanzialmente analoghe a quelle già analizzate sopra, è toccata alla celebre poltrona Intervista (non a caso, utilizzata come seduta per i mezzi busti del Tg2), alla 881 di Molteni e al divano Maralunga di Cassina, appartenente “al c.d. design storico che ha interpretato un’epoca, assurgendo a simbolo tanto da vincere il prestigioso premio ‘Il compasso d’oro’” nel 1979 e di cui viene celebrata la capacità di aver risposto “a un gusto intramontabile di un certo mercato attento al vintage, coprendo così un ampio arco temporale non limitato alle linee di tendenza di un solo periodo storico”.
In The Sign è realizzata dal team di LCA Studio Legale
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