Groenlandia, a cosa mira Trump e quanti soldi sono in gioco

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Articolo tratto dal numero di febbraio 2025 di Forbes Italia. Abbonati!

Le trattative brutali dei palazzinari di New York: questa è stata la sua iniziazione politica. Il suo mentore è stato il brillante e losco Roy Cohn, avvocato radiato dall’albo che per clienti aveva boss della mafia come John Gotti e Carmine Galante. Donald Trump ha imparato a negoziare con la pistola sul tavolo. Bullizza gli alleati. Minaccia di prendere con la forza il canale di Panama e ancora più clamorosamente la Groenlandia, territorio autonomo parte di uno degli stati fondatori della Nato, la Danimarca. All’America, però, non serve affatto trasformare la geopolitica in una bisca. Peraltro, se Trump si comportasse in modo più civile, la Groenlandia, secondo alcuni analisti, potrebbe diventare davvero l’affare del secolo. Del resto gli Stati Uniti non sono nuovi a un approccio commerciale alle relazioni internazionali. Thomas Jefferson comprò la Louisiana nel 1803; nel 1867 William Seward, allora segretario di Stato, acquistò l’Alaska dalla Russia. Due operazioni che all’epoca molti considerarono spericolate e che oggi sono viste come colpi da maestro. Certo, i prezzi di allora erano molto favorevoli – tutta l’Alaska per 7,2 milioni di dollari (pari a 162 milioni di dollari attuali) – e sarebbe impossibile replicarli. Ma c’è chi immagina che, se Trump mettesse abbastanza carne sul fuoco, i groenlandesi potrebbero essere tentati.

Quanto costa la Groenlandia

L’Economist ipotizza un prezzo: almeno 50 miliardi di dollari. Ogni groenlandese diventerebbe milionario e l’America trarrebbe comunque grandi vantaggi. Oltre a gas e petrolio, l’isola di ghiaccio possiede enormi quantità di 43 dei 50 minerali definiti critici dal governo americano. Questi minerali, che in larga parte oggi provengono dalla Cina, sono decisivi per attrezzature militari e dispositivi legati all’energia verde. Al tempo stesso il cambio del clima sta sciogliendo i ghiacci, rendendo i minerali più accessibili e le acque più navigabili. Russia e Cina vogliono aprire nuove rotte commerciali e militari. Il risultato è trasformare l’Artico in uno dei grandi terreni di scontro della competizione geopolitica. 

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Quando Trump ha ventilato per la prima volta l’ipotesi di acquistarla, nel 2019, la Groenlandia era ambita soprattutto per il suo valore economico. Ma le motivazioni di Trump si sono allargate. Oggi dice che gli Usa hanno bisogno della Groenlandia per scopi di sicurezza nazionale, menzionando la necessità di scoraggiare navi russe e cinesi. Nel nord del paese esiste già una base spaziale statunitense, che ospita 200 militari e fa parte del sistema di allerta missilistica di Washington. Tuttavia, una Groenlandia americana, pensa Trump, sarebbe un presidio molto più solido. C’è la necessità di sorvegliare le acque del cosiddetto corridoio Giuk (Groenlandia-Islanda-Regno Unito), la via d’accesso per navi e sottomarini nemici verso la costa orientale degli Stati Uniti e l’Atlantico settentrionale. “Il problema è l’interesse dei cinesi e dei russi per l’Artico. Gli Stati Uniti vogliono tenerli fuori dalla Groenlandia”, dice Mikkel Runge Olesen, ricercatore senior dell’Istituto danese di studi internazionali.

Che cosa pensano i groenlandesi

Questo è ciò vogliono gli Usa. Ma cosa vogliono i groenlandesi? Per ora, con buona pace di Trump, non paiono intenzionati a vendere la loro terra. Molti si sono offesi per la sua tracotanza, altri ne hanno avuto paura. Altri ancora, però, hanno colto un aspetto positivo della faccenda: il futuro politico della Groenlandia è sotto i riflettori. I cittadini cercano di capire quali carte abbiano in mano e quali siano le opzioni migliori. La prima faglia è tra chi vorrebbe più autonomia restando parte della Danimarca e chi invece punta all’indipendenza (dal 2009 i cittadini possono esercitare questo diritto tramite referendum). 

L’attuale premier, il 37enne Mute Egede, sta nel campo indipendentista. Circa due terzi dei groenlandesi sono d’accordo con lui – almeno secondo il più recente sondaggio, che risale però al 2019. Tuttavia rimangono divisi sui tempi e sulle conseguenze per gli standard di vita di un’eventuale distacco dalla Danimarca. Quest’ultima è sì colpevole di aver colonizzato l’isola nel XVIII secolo, ma da decenni garantisce ampia autonomia sulla maggior parte delle materie (a eccezione di politica estera e sicurezza) e, soprattutto, concede grandi sussidi.

I danesi coprono oltre la metà del bilancio groenlandese, finanziano una buona parte dell’occupazione, dell’assistenza sanitaria, dell’istruzione. Gli abitanti della Groenlandia sono pochi (57mila) e piuttosto benestanti. Il reddito pro capite è di 55mila euro l’anno, più della media dell’Unione europea. La disoccupazione è praticamente inesistente. L’economia va avanti grazie alla pesca, agli impieghi statali e a un po’ di turismo. Eccetto il freddo e l’inverno molto buio, sembra una vita abbastanza piacevole. Perché cambiarla?

I bivi della Groenlandia

Peraltro c’è una clausola che toglie impulso a strade alternative. È vero che dal 2009 la Groenlandia controlla le sue risorse sotterranee, ma l’accordo con la Danimarca prevede che le royalties derivanti dallo sfruttamento del sottosuolo siano compensate da riduzioni di sussidi – il che limita l’incentivo ad accelerare l’estrazione. Nel lungo termine, se usati bene, i minerali, il gas e il petrolio batterebbero i sussidi; nel medio, invece, i soldi che entrano da una parte uscirebbero dall’altra. Ecco il primo dilemma. Tra l’altro non tutte le perforazioni esplorative si traducono in miniere commerciali, ed è solo da queste che il governo ricava royalties. Pesca e turismo destabilizzano meno e generano profitti più rapidi.

L’altro bivio è uno dei temi più scottanti della politica contemporanea: l’immigrazione. I groenlandesi potrebbero essere troppo pochi e con competenze troppo deboli per sfruttare appieno il loro sottosuolo. Il problema è che anche piccole dosi di immigrazione avrebbero un impatto demografico profondo, visto che i nativi della Groenlandia sono così pochi. Ma un futuro di indipendenza è legato necessariamente allo sviluppo minerario, e per farlo fiorire c’è bisogno di lavoratori stranieri. Si calcola che ogni nuova miniera richieda 300 persone specializzate provenienti dall’estero. Gli abitanti così potrebbero raddoppiare già nel 2030, una traiettoria che preoccupa il governo. Sarà anche per questo che l’estrazione è proceduta con cautela.

Le aziende stanno trivellando in 170 siti, contro i 12 di dieci anni fa, ma a oggi c’è solo una miniera commerciale aperta. È stato da poco bloccato un progetto, di cui era azionista una società cinese, perché il terreno conteneva non solo terre rare, ma anche uranio. Come in altri territori ricchi di risorse, anche in Groenlandia il boom non è garantito. E in ogni caso si tratta di una rendita non sempre benedetta. Le materie prime a volte portano corruzione e inefficienze; ci vuole una macchina amministrativa potente per gestirle.

L’ipotesi americana

E così torniamo a Trump. L’America è più potente e vicina dell’Europa. Ecco perché, al netto dei lati sgradevoli, l’attenzione di Trump è ben vista. Secondo un sondaggio di dicembre, quasi il 60% dei groenlandesi vuole una cooperazione più stretta con l’America. Si discute di un accordo di libero scambio, che la Groenlandia potrebbe firmare perché non fa parte dell’Unione europea. Gli investimenti americani servirebbero a emancipare l’economia dai sussidi; in caso di indipendenza, la cooperazione rafforzerebbe la difesa e la sicurezza. “Non vogliamo essere danesi. Non vogliamo essere americani. Vogliamo essere groenlandesi”, ha detto il premier in una conferenza stampa a Copenaghen. Orgogliosi ma circospetti, se davvero i groenlandesi scegliessero di staccarsi dalla Danimarca, si avventurerebbero in un mondo reso più pericoloso dallo scontro tra grandi potenze. Questa competizione però offre anche molte possibilità. Un consiglio: tenere aperte tutte le opzioni. E se Trump facesse un’offerta, valutare anche quella.   

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