Morte dal cielo, il 17 febbraio scolpito nella memoria dei cagliaritani

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Era una giornata di sole e cielo limpido. Un mercoledì. Il 17 febbraio 1943 era cominciato come al solito: la gente in fila davanti al forno del pane per ritirare la razione di cento grammi a testa, i bambini a scuola, gli uffici aperti; i treni e le corriere in partenza e in arrivo. Cagliari era una città decisa a vivere, nonostante la guerra, la povertà diffusa, e le notti trascorse nei rifugi – famiglie intere, vecchi con le sdraio, bambini in braccio alle madri – dopo il levarsi delle sirene d’allarme.

Dieci giorni prima, il pomeriggio del 7 febbraio, i cagliaritani avevano visto comparire sopra le loro teste gli aerei anglo-americani, cinquanta bimotori e quadrimotori che per cinque volte fecero avanti e indietro sulla città per poi bombardare il vicino aeroporto di Elmas dove morirono ventisette soldati, tra italiani e tedeschi. In quel momento, i morti che Cagliari piangeva erano i dodici del bombardamento della notte del 2 giugno 1942, e in tanti avevano cominciato a sperare che la vittoria sarebbe arrivata prima di altri lutti.

L’ora più buia giunse senza neanche lo squillo delle sirene nel pomeriggio, poco dopo le 14. Cinquanta aerei americani scortati da ventisei caccia oscurarono il quadrato di cielo sopra il centro della città e a ripetizione, nell’arco di quindici minuti, sganciarono bombe Daisy cutter, quelle che esplodevano a un metro dal suolo sparando spezzoni di ferro e lame incendiarie. L’aviazione alleata aveva scelto con cura i bersagli, ovvero i punti in cui la gente correva per trovare riparo. I morti furono novantasei, centinaia i feriti e i mutilati. L’orrore nella piazzetta di Santa Restituta, a Stampace, dov’era il rifugio improvvisato nella cripta. Lì, mentre dal cielo cominciavano a cadere le lame taglienti, c’erano uomini, donne e bambini che s’accalcavano all’ingresso del riparo dove ormai non ci stava più neanche uno spillo. Morirono in quattordici, tra loro il pittore Tarquinio Sini, e tanti – tra cui una neonata – furono destinati a vivere senza un braccio, una gamba, una mano.

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Quello stesso pomeriggio, i bombardieri angloamericani piombarono d’improvviso anche a Gonnosfanadiga, dove sganciarono in pochi secondi 588 spezzoni da 20 libbre ciascuno. Ottantatré le vittime: giovani e anziani in piazza, le donne che lavavano i panni nel rio Piras, e ventisette bambini che giocavano in strada. I feriti furono 330, tredici si aggiunsero nei giorni successivi al bilancio dei morti. Devastato il paese (che in proporzione agli abitanti fu in Sardegna quello che pagò il più alto tributo di sangue), fu colpito anche il campo d’aviazione di Villacidro, obiettivo militare come lo sono stati gli aeroporti di Elmas, Decimomannu, Monserrato (il paese che il 31 marzo, con interi rioni distrutti, contò quarantuno morti) e tutti gli altri scali.

Cagliari adesso tremava, s’era capito che gli obiettivi dei bombardamenti non erano più soltanto i siti militari. Venerdì 26 febbraio il cielo limpido aprì di nuovo la bocca dell’inferno. Alle 15.30, senza l’alito di una sirena. Venne colpita tutta l’area urbana e rasi al suolo, assieme a molte case, i simboli della città: la torretta del Bastione Saint Remy, un’ala del Municipio, la chiesa di Sant’Anna, il teatro Civico, il mercato del pesce, la sede dell’Unione Sarda. Furono colpiti via Roma, la stazione ferroviaria, piazza Yenne, il Corso Vittorio Emanuele, via Università. Una città in macerie. Il bollettino registrò 73 morti (in realtà furono 123) e 286 feriti. L’esodo verso i paesi Due giorni dopo, domenica 28 febbraio, un’altra incursione aerea. Erano le 12,55 e tanta gente era in strada. I più uscivano dalle chiese dopo la messa, ma nessuna preghiera poté fermare il massacro anche perché le sirene erano rimaste mute. Duecento le vittime ufficiali, ma il bollettino doveva essere bugiardo poiché erano senz’altro molte di più. Dalla mezzanotte di quel giorno cominciò l’esodo verso i paesi dell’interno. Cagliari non aveva più nulla di quel che era stata. Dalle macerie saliva il tanfo della morte, tutto era ricoperto di un manto di polvere («Una nevicava senza freddo», scrisse Vittorino Fiori che fu testimone di quei giorni), e mentre le vittime venivano ormai sepolte nelle fosse comuni, intere famiglie erano sfollate. Dei 125mila abitanti di prima della guerra, a metà marzo del 1943 se ne contavano non più di 12mila. Gli altri due bombardamenti – il 31 marzo e il 13 maggio, con sessanta e cinquanta vittime – trovarono una città vuota. La città di fantasmi che il primo maggio del 1943 seguì in processione il camioncino del latte che trasportava Sant’Efisio arrancando tra le rovine. La gente aveva voluto sciogliere il voto anche in mezzo a quell’inferno.

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