Ci sono urgenze, dettateci dal tempo corrente, che non possono essere eluse. A rischio, altrimenti, non solo di rimanere marginali ma, anche e soprattutto, di risultare anacronistici. In ciò ragionando, non ci riferiamo solo ai rimandi rispetto a quello che fu. Semmai ci richiamiamo al modo in cui si utilizza il passato per trovare qualche riscontro, un addentellato, qualsivoglia confronto o paragone, quindi raffronto, per comprendere il tempo presente.
PER CHI LEGGE QUESTE RIGHE, la Resistenza – le sue speranze, le sue opportunità, soprattutto le sue delusioni – costituisce una sorta di paradigma che da tre generazioni separa quel che si sperava di ottenere dalla rigenerazione generata dalla catastrofica guerra nazifascista ad oggi. In quest’ultimo caso, un’amara considerazione. Partiamo quindi da questa istanza di fondo, a tutt’oggi – come tale – condivisa da molti. Poiché non ci riconduce solo all’antifascismo bensì all’idea di una possibilità, plausibilità, praticabilità di un diverso modo di intendere la società.
Nel copiosissimo profluvio di libri che stanno per colonizzare la nostra attenzione, nell’ottantesimo della Liberazione, si segnala da subito, a modo suo, il vivace testo di Gabriele Ranzato, Eroi pericolosi. La lotta armata dei comunisti nella Resistenza (Laterza, pp. 404, euro 29). Per capirci immediatamente: è un volume impegnativo, pieno di documenti e di rimandi, di riscontri come di analisi. Si tratta quindi, per parte dell’autore, di un esercizio non solo intellettuale, e ancora meno dettato da una qualche immediata esigenza politica. Semmai lo anima il bisogno di dare corpo ed interpretazione a fenomeni storici altrimenti destinati a cristallizzarsi in improvvide rappresentazioni di mera circostanza.
Dietro un tale sforzo, infatti, c’è un lavoro ciclopico. A prescindere dal fatto che se ne accetti i risultati così come li si possa semmai rigettare. Gabriele Ranzato, già docente di storia contemporanea all’Università di Pisa, da sempre si contraddistingue per un approccio non apologetico, celebrativo o liturgico rispetto al passato. La qual cosa non sempre gli ha procurato assensi. Per nulla, posto tutto ciò, è un iconoclasta. In quanto non intende in alcun modo sovvertire, ribaltare, tradire alcunché. Ovvero, qualsivoglia soggetto, tema e quant’altro. Semmai, si pone da sempre il problema del pluralismo di interessi e di attori che animano la storia. Senza per questo stabilire inesistenti equivalenze. Solo per capirci, una volta per sempre: siamo e rimaniamo appieno nel campo antifascista. Che, come tale, è al medesimo tempo composito e complesso. Composito in quanto entrano in gioco, dal 1936 in poi (con la guerra di Spagna), soggetti altrimenti del tutto inediti.
Nella «nazionalizzazione» del Partito comunista durante quella fase, si iscrivono anche le premesse per una prima rielaborazione del legame con Mosca
IN UNA TALE CONFIGURAZIONE, destinata a variare fino al 1945, conta sempre di più la componente, da sé inizialmente minoritaria, dei «comunisti». Variamente definibili, nel loro essere prodotto non di un’unica matrice bensì di un’evoluzione dei fatti storici. Al pari di un conglomerato di interessi, accomunato dal celebrare la morte di quello che, sulle ingloriose ceneri del 1914, era rimasto della Seconda Internazionale. Tale quindi, poiché non riposava solo ed esclusivamente nell’egemonia bolscevica, come tale destinata a sopravvenire nel mentre. La complessità, invece, ancora una volta, ci richiama all’obbligo di contemperare più variabili in gioco.
Le Resistenze nazionali, a partire da quella italiana, furono nel medesimo tempo molte cose. Tra di loro anche assai contraddittorie. Lo stesso rimando al «comunismo», tra il 1943 e il 1945, aveva significati molto diversi da quelli, a guerra conclusa, altrimenti poi intervenuti. L’autore, partendo anche da questi presupposti, si adopera in una difficile indagine, supportata da una nuova analisi di una miriade di fonti, dell’identità comunista resistenziale. In franchezza, nulla scopre che già non si sappia. Non ci sono, in questo come in altri casi, documenti e depositi omessi. Semmai conta la capacità di comprendere, e reinterpretare, gli echi del passato rispetto alla condizione del presente. Ossia, di capire non tanto quel che fu ma quanto può contare, ad oggi, per ognuno di noi. Ranzato si muove appieno in tale senso. Posto che riconosce all’allora Partito comunista, fino a quel tempo altrimenti soggetto clandestino, una primazia organizzativa, culturale e politica rispetto al resto del partigianato come tale. Così come del campo politico antifascista.
È questo un punto molto delicato. Poiché richiama non solo gli equilibri tra le diverse forze in campo contro il nemico nazifascista bensì l’oggetto stesso della lotta resistenziale. Si tratta di lotta di «liberazione nazionale» oppure anche di altro? Claudio Pavone, a modo suo, ha già risposto ad un tale quesito. Per ciò che gli compete, Gabriele Ranzato aggiunge altre considerazioni. Del tutto verosimili.
Il libro, infatti, si articola su più piani tematici, non a caso distribuiti in dieci capitoli. Ci sono diversi passaggi che si intersecano ripetutamente. Il primo di essi rimanda al problema del ricorso alla violenza, ossia alla lotta armata. Non è solo un persistente dilemma morale, che peraltro accompagna tutta la lotta di Liberazione, bensì un rimando alla questione – in sé già allora chiara alla dirigenza comunista – del transito dalla clandestinità ad una «illegalità di massa» che avrebbe dovuto spezzare il monopolio della forza detenuto dai residui del vecchio regime. Segnatamente, non solo quello fascista ma anche ciò che risultava legato a quel che rimaneva del potere regio.
Centrale il tema del ricorso alla violenza: il transito dalla clandestinità ad una «illegalità di massa» che spezzasse il monopolio della forza detenuto dai residui del vecchio regime
La questione del ricorso collettivo alle armi, al di là delle suggestioni di circostanza, era quindi piena di conseguenze. Poiché era chiara la consapevolezza che qualcosa di nuovo, in quelle circostanze, sarebbe comunque nato. Ma la piena egemonia sui transiti di sovranità – il comunismo storico demanda da sempre a questo transito cruciale, dal 1917 in poi: quel che sopravviene, sarà più capace e abile di ciò che, nel mentre, si inabissa? – costituiva un vero punto interrogativo. Non a caso, ed è il secondo passaggio da prendere in considerazione, il rimando è a quanto richiama l’azione politica clandestina, che aveva comunque garantito ai comunisti un qualche radicamento, sia pure ancora in parte marginale, nell’Italia altrimenti fascistizzata. Tutto ciò in un irrisolto connubio, che attraversa i novecenteschi movimenti di liberazione nazionale: quello che intercorre tra esercizio politico e attività militare.
Il tema del «partito armato», come tale suggello di una nuova società a venire, si integra, surclassando i nazionalismi borghesi, con le suggestioni, all’epoca comunque assai diffuse, di una rottura dell’ordinamento liberale. Beninteso, non è una questione dei soli comunisti: è semmai la sponda che permette di andare oltre i clamorosi fallimenti della Seconda Internazionale, sospesa tra sterile legalitarismo, oggettiva inanità, sopravvenuta impotenza come anche, e soprattutto, di una completa mancanza di intenzione rispetto ad un plausibile, nonché potenziale, progetto politico a venire. I nazionalismi radicali, a quel punto, non a caso si trasformano in fascismi oppure in bolscevismo. Punto e a capo. Poiché c’è un’irrisolta linea di continuità tra l’identitarismo nazionale e (quel che ad oggi, in maniera fallace, si ripresenta dinanzi ad ognuno di noi) rivendicazionismo sociale. Quest’ultima, beninteso, non un’affermazione che appartenga a Gabriele Ranzato. Semmai è quanto deriva al suo recensore. In quanto l’antinomico ed irrisolto nesso tra internazionalismo proletario e identità soggettiva, sia nazionale che sociale, costituisce un conflitto a tutt’oggi irrisolto. Il comunismo storico, suo malgrado, non è mai riuscito a trovare, rispetto ad essa, una soluzione accettabile. Anche per ciò, precipitandovi e quindi estinguendosi. A conti fatti, allora, si tratta comunque di un problema che rimanda anche al nostro oggi. Poiché oltre ad essere una questione bellica, ossia di armi, la Resistenza diveniva per Togliatti, ed i suoi uomini, l’occasione per uscire non solo dalla clandestinità ma soprattutto dalla minorità politica che aveva invece connotato l’intera traiettoria del Partito comunista d’Italia fino al 1943.
ANCHE IN UN TALE QUADRO di «nazionalizzazione» del comunismo italiano si inscriveva quindi la rielaborazione del legame con Mosca. Non era ancora, per nulla, un’autonomizzazione, all’epoca del tutto impensabile. Ma poneva alcune premesse che sarebbero poi, nel mentre, sopravvenute. Per quindi imporsi, nei fatti. In Italia e non solo. Togliatti e la Resistenza comunista condividono pertanto una consapevolezza fondamentale (allora come nell’oggi): il lavoro politico non è l’omologazione ad un canone ma la comprensione di come si possa far transitare le intere collettività dalla passività, e dall’omologazione, ad una qualche forma di consapevolezza di sé. Valeva per il tempo che fu. Vale, a conti fatti, per l’oggi. Oltre tutto ciò, altrimenti, c’è la morte civile. Il vero campo del fascismo di sempre.
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