Ieri si è aperto il processo a Giampiero Gualandi imputato per aver sparato, il 16 luglio del 2024, al volto di Sofia Stefani, uccidendola. Il delitto avvenne nella sede della polizia municipale di Anzola Emilia. Oggi c’è molta rabbia e indignazione per la decisione della Corte d’Assise di Bologna di escludere, accogliendo le richieste dei legali difensori di Gualandi, i centri antiviolenza e le associazioni che si volevano costituire parte civile: la Casa delle donne di Bologna, Udi, Malala, Mondo Donna ed SOS Donna. La motivazione? Secondo Pasquale Liccardo, presidente della Corte: “Le condotte non permettono allo stato degli atti di ricondurre il fatto alla definizione di femminicidio, mancando qualsiasi riferimento alla lesione della sfera di autodeterminazione della donna, ad atti di maltrattamento, discriminazione e prevaricazione o ad atti tipici della violenza di genere”.
Una prima osservazione che mi preme fare è che il maltrattamento all’interno di una relazione sentimentale non precede necessariamente l’estremo atto violento: lo stupro di un estraneo è un femminicidio, il ricatto sessuale è un femminicidio, perché quello che connota questo tipo di crimine è l’odio nei confronti delle donne. La violenza che si manifesta quando queste ultime non aderiscono a ruoli e aspettative di subalternità.
La confusione sul significato di femminicidio in contesti istituzionali non è infrequente così come le valutazioni morali sulle vittime. L’impostazione di questo processo non è molto distante da quella che ha portato alle motivazioni della sentenza di Gabriela e Renata Trandafir uccise “per motivi umanamente comprensibili”. Ne Il mostruoso femminile, un saggio straordinario di Jude Elsion Sady Doyle sull’immaginario e sulla paura che gli uomini nutrono per le donne, si legge: “L’umanità è definita dagli uomini, perciò le donne, che non sono uomini, non sono umane. Da qui la necessità che vengano dominate dagli uomini e se le donne si ribellano a questo dominio diventano mostruose. La paura della violenza maschile ci ricorda costantemente di non essere persone e che gli uomini hanno ancora il potere di porre limiti e restrizioni alle nostre vite”.
Da questo punto di vista è incredibilmente illuminante il capo di imputazione così come è stato scritto dalla Procura di Bologna: “Per aver cagionato il decesso di Sofia Stefani con la quale intratteneva una relazione extraconiugale, attingendola con un colpo di arma da fuoco al volto; fatto commesso per sottrarsi alle insistenze di quest’ultima nel proseguire la relazione, nonostante il disagio e i discontinui tentativi di lui di porre fine ad essa. Con le aggravanti di aver commesso il fatto in danno di persona a cui era legato da relazione affettiva per futili motivi”.
Uccisa per le insistenze? Di cosa stiamo parlando di un essere umano o di una zanzara? E’ il caso di chiedersi se i motivi di quel crimine siano da indagare in qualcosa di più profondo o più ampio di quei “futili motivi” che leggiamo spesso in tanti capi di imputazione. Futili motivi che diventano granitici quando crescono sulla legittimazione che gli autori di femminicidio si danno quando decidono se una donna deve vivere o morire. L’esercizio della violenza è strettamente commesso al potere come se ne spiegherebbe, altrimenti, la disparità tra uomini e donne? I dati del ministero della Giustizia del 2018, ci dicono che gli uomini sono l’82,41% dei 500mila autori di reato per i quali è stata aperta una procedura penale; l’85,1% delle persone condannate dalla giustizia; il 92% degli imputati di omicidio.
Le reazioni delle attiviste si sono fatte sentire. E ne cito alcune. Laica Montanari presidente del Coordinamento dei Centri antiviolenza dell’Emilia-Romagna ha espresso profonda preoccupazione e indignazione per una decisione che “ci risulta del tutto incomprensibile. Escludere le associazioni che si occupano di contrasto alla violenza non è riducibile ad un tecnicismo procedurale ed ha un inquietante valore politico. Ci chiediamo di fronte a questa decisione, che cosa significa femminicidio per i tribunali?”.
Antonella Veltri, presidente D.i.Re donne in rete ha commentato “A cosa servono le costituzioni di parte civile delle associazioni di donne nei casi di femminicidio? A spiegare ancora una volta che cosa si intende per femminicidio, che cosa significa come evento nella nostra società, a ricordare le definizioni della Convenzione di Istanbul, ancora troppo spesso ignorata nei tribunali. Sarà per questo che fanno paura. Sarà per questo che danno fastidio nei luoghi di potere”.
Rossella Mariuz, presidente UDI ha parlato di “decisione grave e di carenze su più fronti, compreso uno scarno capo d’accusa” quando “nelle carte di inchiesta c’è la dimostrazione che sono provati tutti gli elementi del femminicidio”. Clarice Carassi, presidente di Trama di Terra di Imola ha commentato la decisione della Corte con queste parole: “L’esclusione dei Centri antiviolenza ci restituisce la persistente resistenza da parte dei giudici italiani ad adottare nella interpretazione dei reati di violenza contro le donne quella prospettiva di genere che le fonti e gli organi sovranazionali prescrivono (convenzione di Istanbul e la Cedaw). Un fatto grave che, assieme alla opinabile delineazione del capo di imputazione, evidenzia con forza l’opportunità’ di introdurre un diritto penale della differenza e il reato di femminicidio”.
@nadiesdaa
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