Nel recente discorso del vicepresidente degli Stati Uniti J. D. Vance a Parigi ha risuonato stentorea una tesi antica, che risorge oggi a nuova vita: nessuno può farsi giudice delle azioni del governo, men che meno il potere giudiziario.
Non si tratta però dell’ennesimo atto nella risaputa lotta tra politica e giustizia, bensì della presa di coscienza di un prossimo cambio di stagione. In effetti, se ovunque il potere interdittivo della magistratura sembra in crescita, quale argine all’ipertrofia para-autoritaria di certi governi, negli Stati Uniti questo scenario rischia di venir meno.
Si potrebbe infatti determinare l’inedita contingenza di un potere giudiziario messo a guardia delle insindacabili prerogative dell’esecutivo. E questo tipo di alleanza sistemica promette di trovare zelanti proseliti tra i molti leader europei emuli della politica trumpiana.
Il manifesto di Vermeule
Da qualche anno negli Usa si assiste all’ascesa di una teoria giuridica detta “costituzionalismo del bene comune”. Se il nome è un bluff, la sostanza è piuttosto pericolosa. Varrà la pena allora offrirne una breve sintesi.
Nel marzo 2020, ai primi riconosciuti cenni della pandemia da Sars-CoV-2, Adrian Vermeule, influente costituzionalista di Harvard, pubblicava un articolo sul noto magazine The Atlantic. Il titolo recitava appunto Common-Good Constitutionalism, e di fatto era un manifesto. Di più: un programma politico.
Già da tempo patrocinatore di un generale indebolimento dei vincoli al potere esecutivo, specie in tempo di crisi emergenziali, Vermeule nel suo controverso articolo difende un’idea di Costituzione che dovrebbe far tremare i polsi.
A suo avviso, le società occidentali necessitano di un restyling etico, che deve partire dall’eradicamento dell’individualismo e dal ridimensionamento delle libertà civili. Scrive che l’errore fatale della Corte suprema fu sostenere, in alcune storiche sentenze, che il cittadino possa definire da sé il proprio concetto dell’esistenza, dell’universo e del mistero della vita umana – tesi a suo avviso da «condannare come abominevole».
E chiosa: «Gli assunti libertari cruciali per le leggi sulla libertà di parola e per l’ideologia della libertà di parola – secondo cui il governo non può giudicare della qualità e del valore morale del discorso pubblico – dovrebbero cadere per un colpo di scure».
I valori del «bene comune»
Chi allora, secondo Vermeule, dovrebbe articolare il concetto di vita umana e universo? La risposta è semplice: il potere politico nella sua istanza esecutiva, che si fa interprete privilegiato dei principi e dei valori ultimi della società.
Gli Stati Uniti, sostiene l’insigne giurista, devono tornare a un’idea di politica come appartenenza dell’individuo a un progetto omogeneo di società, fondata su un nucleo forte di principi e valori. Questi ultimi devono essere riconosciuti quali beni indiscutibili della collettività, posti al cuore della Costituzione e protetti da un esecutivo forte.
A sua volta, l’esecutivo deve essere inteso come protettore ed applicatore di detto «bene comune». A tal fine, deve poter contare su un apparato amministrativo e giudiziario capace di far valere la sua concezione del buono e del giusto – se necessario, a discapito di altre concezioni presenti in società.
Sui valori che questo «bene comune» dovrebbe adottare come asse focale, Vermeule ha le idee chiare: famiglia tradizionale, protezione della vita umana (sin dal concepimento), sussidiarietà, solidarietà tra classi sociali. Insomma, una sorta di neocorporativismo infarcito di integralismo cristiano-cattolico. Ricetta che in Europa abbiamo saputo applicare su vasta scala un centinaio di anni fa.
Il potere del governo
Questa prospettiva sta conquistando le figure apicali delle istituzioni statunitensi in due modi: come dottrina che viene trasmessa ai formandi giuristi e come nuova interpretazione della Costituzione allorché si devono motivare le sentenze più importanti, specie quelle della Corte suprema.
Tutto questo per la massima gioia dell’amministrazione Trump, perché il costituzionalismo del bene comune fa da contrappunto a quella che sempre Vermeule ha più di recente chiamato «teoria massimalista del potere esecutivo».
Il compito nodale del potere di governo, secondo questa visione, è offrire una direzione, cioè impartire quello che nella tradizione italiana si chiama “indirizzo politico” – quella dinamica energizzante senza la quale, nella prospettiva qui descritta, non può esistere una società come progetto collettivo. La conclusione vien fuori come una sorta di automatismo: l’indirizzo politico impartito dall’esecutivo non può essere giudicato da un potere subordinato come la magistratura.
Il connubio tra costituzionalismo del bene comune e teoria massimalista del governo può sintetizzarsi come segue: la Costituzione regola sì il potere esecutivo, ma al potere esecutivo spetta determinare il senso e il fine ultimo della Costituzione. In altri termini, è il governo a decidere quando è il caso di porre limiti a sé stesso.
Fare resistenza
Varrà la pena ricordare che quanto sin qui descritto, benché sia oggi proposto come teoria innovativa, altro non è che il nucleo dottrinale forte delle correnti più conservatrici che, nei primi anni Trenta del Novecento, sostenevano l’esigenza di una Costituzione come «sostanza etica» della comunità.
E queste stesse correnti, di contro alla funzione di controllo delle Corti, propugnavano l’idea di un esecutivo energico a guida della collettività. Insomma, se si volessero rintracciare antesignani illustri dell’asse Vermeule-Vance, sarà utile cercare nella tradizione dell’Europa continentale di allora.
E chissà che a rispolverare quelle teorie non saranno proprio i leader di Italia e Germania, dove più forte e convinta fu la magnificazione della guida politica come interprete unico dello spirito del popolo. Sarà allora bene tenere a mente che il confronto ideale su cos’è la società e cosa la politica, nonostante la sempre più diffusa riluttanza ai concetti, rimane oggi un campo di tensione, in cui si è chiamati a fare resistenza.
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