Anche questo è un effetto del trumpismo: delle 560 grandi aziende internazionali che avevano lasciato il paese dopo l’invasione dell’Ucraina, hanno fatto ritorno già 235. Ma almeno altre 100 sarebbero pronte a compiere lo stesso passo. Il colosso multinazionale che detiene, tra gli altri, Zara e Uniqlo avrebbero già avviato contatti informali per riconquistare la sua fetta nel mercato russo
Entro la metà del 2022, anno dell’invasione dell’Ucraina, 560 grandi aziende internazionali avevano già lasciato la Russia. Poco meno della metà, 235, sono rientrate entro il dicembre scorso. Stando a uno studio del Kokoc Group – azienda che si occupa di sviluppo aziendale, marketing e servizi – più di altre 100 società sarebbero pronte a compiere lo stesso passo in capo al 2025.
Molto sembra muoversi in Russia all’ombra dell’elezione di Donald Trump e dei primi incontri sull’Ucraina tra i negoziatori del Cremlino e la controparte americana. E non è una semplice sensazione. Che i grandi marchi occidentali, giapponesi e sudcoreani stiano fremendo per ricominciare a fare affari è un dato certo. D’altra parte, all’ombra di Mosca, c’è un mercato che conta circa 146 milioni di consumatori: un mercato che, stando alle diverse analisi, ha mantenuto spazi sufficienti per un reinserimento di successo.
I passi da compiere non sono per tutti uguali e in qualche caso non appaiono affatto banali. Un conto è rivedere Youtube pienamente operativa (i russi usano comunque la piattaforma attraverso le connessioni VPN), un altro è ritornare a produrre auto o riportare alla piena attività grandi catene commerciali e compagnie aeree.
Tuttavia, tanti segnali indiretti sembrano convergere verso la stessa direzione. Stando a diverse fonti, sembra che la multinazionale spagnola Inditex (Zara, Zara Home, Massimo Dutti, Bershka, Oysho, Pull & Bear, Stradivarius, Uterqüe) abbia avviato una trattativa privata per ricominciare ad operare in Russia. Del negoziato, in base ad alcune dichiarazioni, è sicuramente al corrente Pavel Lyulin, vicepresidente dell’Unione dei centri commerciali russi (STC).
Allo stesso modo, alcuni canali Telegram hanno dato conto dei contatti informali tra gli ex dipendenti Uniqlo – marchio giapponese di successo, qui in Italia presente a Milano e Roma – e rispettivi capi dell’azienda: lo scopo è vagliare la disponibilità a tornare al lavoro per una imminente riapertura. Profferte di Stc sarebbero state fatte anche a H&M.
C’è poi parte del comparto auto che è in pieno movimento. Hyundai Motors, pur essendo fuori dal paese dal 2023, sembra intenzionata a riprendersi il suo stabilimento di San Pietroburgo. A dirlo è anche la recente e rinnovata registrazione da parte di Hyundai del marchio aziendale presso il Servizio federale russo per la proprietà intellettuale.
D’altra parte, prima della guerra, la Russia significava per il gruppo quasi 250 mila auto l’anno, nonché il primato tra i gruppi automobilistici stranieri. Oggi però lo scenario non è esattamente lo stesso, dato che l’azienda dovrà fare i conti con i concorrenti cinesi, sia quelli già presenti (Haval, Chery e Geely ad esempio) che quelli potenziali (BYD, Lixiang, Zeekr e altri produttori chiamatisi fuori finora per paura delle sanzioni secondarie).
Torna la Coca-Cola?
Sebbene la narrazione del Cremlino secondo la quale in questi anni c’è stato un semplice “effetto sostituzione” tra marchi internazionali e loro simulacri russi – la Coca-Cola è diventata la “Dobrij Cola”, McDonald’s è diventato “Vkusno i Točka”, ovvero “Buono e Basta”, eccetera – non sembra essersi verificata, va chiarito che la situazione del mercato interno è complessa e assai variegata.
A differenza dell’abbigliamento, dove i marchi russi o cinesi non hanno affatto attecchito nel triennio della guerra (poco fatturato, tante chiusure, molti licenziamenti), la partita su elettronica, logistica e industria appare – considerata la presenza cinese – del tutto diversa.
Detto questo, è pacifico che esista una tendenza generale ineludibile. E siccome negli affari il tempismo è tutto, c’è già chi ha fatto pronostici. Del primo gruppo di aziende si è già detto. Ad esse, secondo il politologo Vadim Siprov, dovrebbe seguire il ritorno dei marchi storici americani (PepsiCo, McDonald’s, Cisco, Coca-Cola, Apple, Visa, eccetera) insieme alle aziende del Sud Europa (Italia inclusa). Infine, a guerra finita e crisi completamente rientrata, i gruppi britannici e nordeuropei (Unilever, Maersk, IKEA, Carlsberg, eccetera).
C’è, in conclusione, da chiarire che tutta questo attivismo del mondo del business sarebbe impossibile se a fare da sfondo non fosse arrivata l’elezione a presidente di Trump. Il tycoon è già da oggi due volte stampella di Putin. In primo luogo, perché il suo insediamento è coinciso con un progressivo allentarsi della tensione sul rublo, circostanza che dà molto ossigeno all’economia russa (i continui rialzi del tasso d’interesse hanno messo molte aziende in seria difficoltà).
In secondo luogo, perché questo possibile ritorno dei capitali internazionali in Russia solleva il presidente russo dal continuo contenzioso con gli oligarchi nazionali. Per sostenere lo sforzo bellico e mantenere la pace sociale, il Cremlino ha chiesto molto al mondo imprenditoriale.
La sensazione, con il tasso ufficiale al 21%, è che gli spazi per dare fondo ad altre risorse siano esauriti. Trasversalmente e sottotraccia, da tempo esistono diversi malumori. Per un paese che convive con un’alta inflazione, che si preparava a diversi fallimenti aziendali, che vive un periodo di scarsità di manodopera, le aperture di Trump sono un sostegno di fatto.
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