Quali sono le analogie e le differenze fra Elon Musk e Steve Jobs?

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Qualche anno fa una mostra aperta nel cuore di Londra, al Design Museum, cercava di ricostruire la nascita della Silicon Valley come un’eredità diretta della cultura hippie. L’idea era questa: quel sogno di libertà assoluta, condito da ideali di uguaglianza e pace, aveva solo cambiato pelle, trasformandosi negli albori di una rivoluzione tecnologica.

Quello che non era riuscito alle chitarre elettriche di Jimi Hendrix a Woodstock poteva riuscire ai primi computer nei garage californiani. I “figli dei figli dei fiori” non cantavano più della rivoluzione: la programmavano, con un nuovo linguaggio fatto di nerd, bit e circuiti.

A distanza di pochi decenni, oggi quella stessa utopia sembra ormai scomparsa. Il mondo immaginato da Elon Musk, e rappresentato da Donald Trump, è lontanissimo da quello che sognavano sia gli hippie sia i primi hacker. Com’è possibile che l’utopia incarnata da Steve Jobs, quando vent’anni fa invitava gli studenti dell’Università di Stanford a restare “hungry and foolish”, affamati e folli, sia diventata la distopia dei nostri giorni? Cosa è andato storto?

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Analogie e differenze

Walter Isaacson, uno dei più importanti biografi americani, ha spesso sottolineato le analogie fra Elon Musk e Steve Jobs: entrambi sono stati dei visionari che immaginavano di poter cambiare il mondo da soli. Bill Gates, creatore di Microsoft, ha invece suggerito di andare un po’ più cauti con i paragoni: chiunque conosca le persone davvero, senza basarsi sui racconti che se ne fanno, capisce che certe analogie sono sempre troppo semplicistiche.

E infatti, sempre secondo Gates, Musk ha sempre pensato ai prodotti: auto elettriche, razzi, chip cerebrali. Jobs, invece, vendeva sogni prima ancora che oggetti. Se il primo vuole sbarcare su Marte, il secondo voleva conquistare prima di tutto l’immaginario collettivo. Ancora oggi su TikTok girano i video della leggendaria presentazione dei primi iPhone.

È possibile che quest’aura di utopia e genialità influenzi ancora il ricordo che abbiamo di Steve Jobs, con il rischio di trasformarlo in mito? Cosa sarebbe successo se fosse vivo ancora oggi, ai tempi di Donald Trump? Sarebbe stato in prima fila all’inauguration day?

Il nuovo capitalismo

Steve Jobs è morto nel 2011 per un tumore al pancreas, quando il presidente era Barack Obama, lasciando questa domanda senza una possibile risposta. Quello che è successo alla Silicon Valley, ai suoi sogni, e in più larga misura al mondo della tecnologia, è invece più facile da raccontare.

Lo ha fatto ad esempio la sociologa americana Shoshana Zuboff in un libro del 2019, pubblicato in Italia dalla Luiss e intitolato Il capitalismo della sorveglianza. L’idea è che l’utopia di un’Internet che avrebbe permesso la connessione globale e un accesso equo alla conoscenza sia franata per sempre. Ora le grandi aziende della tecnologia si concentrano sul controllo del comportamento umano, con l’obiettivo di massimizzare i profitti. Le grandi piattaforme come Google e Facebook offrono servizi che all’apparenza sono gratuiti, ma che usano come “materia prima” le persone per il loro vero prodotto: la manipolazione del comportamento.

Così, sono cambiate le persone, ma è mutata anche la società. Gli hippie sono morti e al loro posto gli autocrati come Elon Musk hanno preso il potere: prima trasformando le loro compagnie in “stati ombra” e poi andando all’attacco diretto della democrazia. Sono ancora affamati e sono ancora folli, ma non nel senso che intendeva Steve Jobs.

Una via di fuga

Che ne è stato poi del sogno di cambiare il mondo? Douglas Rushkoff ha una risposta, contenuta in un libro, sempre edito dalla Luiss, dal titolo particolarmente efficace: Solo i più ricchi. Come i tecnomiliardari scamperanno alla catastrofe lasciandoci qui. Alla base c’è un episodio autobiografico e grottesco: cinque fra le persone più ricche del pianeta avrebbero invitato Rushkoff, uno fra i più importanti divulgatori sul tema dell’innovazione, in una località segreta nel deserto. Avevano bisogno della sua consulenza per verificare la bontà dei diversi piani di fuga da loro elaborati in vista di quello che chiamavano l’Evento: una catastrofe di natura incerta, ma che a un certo punto si abbatterà sul nostro pianeta.

L’idea è che i miliardari tech non abbiano più interesse nel migliorare la società, ma di cercare vie di fuga per salvarsi: che siano bunker sotterranei, viaggi spaziali (come SpaceX) o progetti di longevità (come Neuralink). La tecnologia è uno strumento da utilizzare per puntare al progresso, ma non è detto che debba essere al servizio di tutti. L’idea di una connessione si è trasformata in un bisogno di fuga e isolamento: dall’utopia si è passati alla distopia.

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Il nuovo manifesto

Sull’Atlantic, ormai più di un anno fa, Adrienne LaFrance ha proposto di utilizzare una definizione ancora più precisa, parlando di “tecnocrazia autoritaria”. «Il comportamento delle più importanti aziende della Silicon Valley e delle persone che le gestiscono è spesso ipocrita, avido e ossessionato dallo status», ha scritto.

«Ma alla base di queste venalità c’è qualcosa di più pericoloso, un’ideologia chiara e coerente che raramente viene chiamata per quello che è: una tecnocrazia autoritaria. Man mano che le aziende più potenti della Silicon Valley sono maturate, questa ideologia è diventata solo più forte, più ipocrita, più delirante e, di fronte alle crescenti critiche, più vittimista». In un certo senso, ancora una volta, più affamata e più folle. Il punto di riferimento culturale non sembra più essere il mondo hippie, ma il futurismo italiano di Tommaso Marinetti.

Come spiega ancora LaFrance, è l’ispirazione più chiara del manifesto scritto da Marc Andreessen, fra i più importanti finanziatori della Silicon Valley. In un inquietante “manifesto del tecno-ottimismo”, pubblicato online, in cui si identificano le caratteristiche principali di quella che dovrà essere l’evoluzione della società, almeno dal punto di vista dei grandi della tecnologia.

È qui dentro che si trova il nuovo prontuario che vuole sostituire definitivamente il testamento di Steve Jobs: «Bugie. Ci stanno mentendo. Ci viene detto che la tecnologia ci porta via il lavoro, riduce i nostri salari, aumenta le disuguaglianze, minaccia la nostra salute, rovina l’ambiente, degrada la nostra società, corrompe i nostri figli, compromette la nostra umanità, minaccia il nostro futuro ed è sempre sul punto di rovinare tutto. Ci viene detto di essere arrabbiati, amareggiati e risentiti nei confronti della tecnologia. Ci viene detto di essere pessimisti (…)».

«Verità. La nostra civiltà è stata costruita sulla tecnologia. La nostra civiltà è fondata sulla tecnologia. La tecnologia è la gloria dell’ambizione e dei successi umani, la punta di diamante del progresso e la realizzazione del nostro potenziale. (…) È giunto il momento, ancora una volta, di alzare la bandiera della tecnologia. È tempo di essere tecno-ottimisti».

«Tecnologia. I tecno-ottimisti credono che le società, come gli squali, o crescono o muoiano. Crediamo che la crescita sia progresso, che porti vitalità, espansione della vita, accrescimento della conoscenza, maggiore benessere. (…) Le fonti di crescita sono solo tre: la crescita demografica, l’utilizzo delle risorse naturali e la tecnologia».

Neanche a dirlo, Andreessen è stato fra i principali finanziatori di Trump e il suo credo sembra una traduzione di alcuni dei discorsi di Elon Musk. Anche se tutto è nascosto dietro al paravento di un apparente ottimismo, non c’è più nulla della luminosità di Steve Jobs. Tutto è fatalmente più oscuro.

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