Discriminatorio dichiarare di assumere per ruoli apicali solo donne «over 40»

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È discriminatorio affermare, per di più nel corso di un evento pubblico, di riservare la copertura delle posizioni aziendali più importanti unicamente agli uomini o a donne che abbiano superato i 40 anni.
Lo ha affermato il Tribunale di Busto Arsizio con la sentenza n. 395 pubblicata lo scorso 3 febbraio (il cui dispositivo è stato letto il 4 giugno dell’anno scorso), relativa al caso – che ha creato un certo scalpore – di un’amministratrice delegata, molto nota e seguita sui social, di un’importante azienda di moda.

In occasione di un evento pubblico dedicato al ruolo della donna nel mondo della moda tenutosi nel maggio del 2022, al quale aveva anche partecipato il Ministro per la Famiglia e le pari opportunità e che era stato trasmesso in streaming sui social, l’amministratrice in questione aveva espresso i termini della propria politica assuntiva in relazione alle lavoratrici donne.

La stessa aveva, in particolare, affermato di preferire, nella assegnazione delle posizioni aziendali “importanti” o apicali, uomini oppure donne sopra i 40 anni, perché, testualmente, “se dovevano sposarsi, si sono già sposate, se dovevano far figli, li hanno già fatti, se dovevano separarsi hanno fatto anche quello e quindi diciamo che io le prendo che hanno fatto tutti i quattro giri di boa, quindi sono li belle tranquille con me a mio fianco e lavorano h24, questo è importante (..)”, e ancora “quando metti una donna in una carica importante, se è molto importante, poi non ti puoi permettere di non vederla arrivare per due anni perché quella posizione è scoperta”, alludendo a un’eventuale maternità.

A fronte di tali affermazioni, il Tribunale di Busto Arsizio è stato investito della questione su ricorso dell’Associazione nazionale lotta alle discriminazioni (c.d. A.N.Lo.D.) ai sensi dell’art. 28 del DLgs. 150/2011, con cui è stata proposta un’azione di discriminazione collettiva in sede di accesso al lavoro per età, genere, status e cura familiare.
La causa di primo grado si è conclusa con la sentenza in commento, con cui la giudice ha affermato che la condotta posta in essere dall’amministratrice costituisce una forma di discriminazione indiretta multifattoriale e intersezionale, in quanto il pregiudizio sull’età si correla ad altri fattori di discriminazione, vale a dire il genere, lo status sociale e i carichi di famiglia delle lavoratrici. Dalle affermazioni della amministratrice emerge, infatti, che le lavoratrici under 40 non avrebbero esaurito il proprio desiderio di maternità, non potendosi così dedicare completamente, “h24”, al lavoro; le stesse, quindi, sarebbero da escludere da posizioni manageriali o apicali all’interno del contesto aziendale.

Tali affermazioni, oltre che discriminatorie, per il contesto pubblico nel quale sono state profferite sono state ritenute anche oggettivamente idonee a dissuadere le lavoratrici under 40 dall’accedere o dal candidarsi per le posizioni di vertice della società, realizzando così una generalizzata lesione.

Tutto ciò, vale a dire affermare pubblicamente di destinare le donne fino agli “anta” a ruoli aziendali subalterni o poco importanti, per poi prenderle in considerazione per i ruoli managerali o più importanti una volta compiuti i 40 anni, lede in primis i diritti costituzionalmente garantiti, quali la dignità sociale delle lavoratrici e i principi di uguaglianza e di solidarietà. Inoltre, nella sentenza si legge che a risultare violati sono anche il disposto di cui al DLgs. 216/2003 sulla parità di trattamento in materia di accesso, di occupazione e di condizioni di lavoro e i divieti sanciti dal DLgs. 198/2006 (c.d. Codice delle pari opportunità).

L’amministratrice in questione, del resto, qualche giorno dopo l’evento, aveva fornito ulteriori dichiarazioni, senza però prendere in modo chiaro, secondo la giudice, le distanze da quanto in precedenza dichiarato.
Tale circostanza è stata presa in considerazione dal Tribunale, anche alla luce di quanto affermato dalla Corte di Giustizia Ue con la sentenza del 23 aprile 2020, causa C-507/18, secondo cui la mancata chiara presa di distanza da parte del datore di lavoro dalle dichiarazioni pubbliche relative a una determinata politica di assunzioni, così come la percezione del pubblico o degli ambienti interessati, costituiscono elementi pertinenti di cui il giudice adito può tener conto nell’ambito di una valutazione globale dei fatti.

Il Tribunale, dopo aver dichiarato il carattere discriminatorio delle affermazioni, ha condannato la società a corrispondere all’associazione ricorrente, a titolo di risarcimento, una somma stabilita in via equitativa pari a 5.000 euro e alla pubblicazione a proprie spese, entro 30 giorni, del dispositivo della sentenza su un quotidiano nazionale, ordinandole altresì di promuovere un consapevole abbandono dei pregiudizi di età, genere, carichi e impegni familiari nelle fasi di selezione del personale per le posizioni di vertice con adozione di un piano di formazione aziendale sulle politiche discriminatorie.



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