Giorgia e Simone, originari del Cuneese, una giovinezza trascorsa negli scout. Poi, come tutte le belle sorprese che nascono da un lungo percorso, la decisione di stare insieme e di modellare la propria vita sull’accoglienza e sul servizio. Sognano, come tutte le coppie, di avere figli, di costruire una famiglia capace di sorridere e di far sorridere alla vita. E sanno che nulla come il valore della solidarietà dà spessore e senso a una relazione. Per due aspiranti genitori, la solidarietà più bella riguarda la possibilità di regalare una famiglia a un bambino che non ce l’ha. E loro, come capi scout, con i bambini ci sanno fare. Soprattutto dal punto di vista educativo. «Abbiamo pensato che il modo migliore per far capire agli altri la qualità del nostro rapporto fosse quella di aprirci all’affido». Prima ancora di frequentare i corsi prematrimoniali, seguono quindi quello di avvicinamento all’affido. Vogliono arrivare preparati quando toccherà passare dalle parole ai fatti. Quando si sposano, nel 2017, hanno già alle spalle alcuni mesi di approfondimento sul tema. Potrà sembrare strano, ma per una coppia come loro, si tratta di un punto fermo. «Prima regaliamo la nostra maternità e la nostra paternità a un bambino che ne è stato privato, poi se arriveranno figli biologici meglio. La nostra dovrà essere una casa aperta, disponibile ad accogliere bambini in difficoltà, anche stranieri».
Lei fa la ricercatrice, lui è occupato nell’ambito sanitario. Dopo il matrimonio si spostano, per motivi di lavoro, nella zona di Varese. Qui incontrano un’educatrice del servizio affidi a cui spiegano i loro obiettivi. Le raccontano di essere interessati a ragazzi dagli 8 ai 15 anni perché è in quella fascia d’età che hanno messo insieme un’esperienza significativa nei gruppi scout. La vita invece riserva loro tutt’altro. Dopo due anni e mezzo la prima proposta. Contrariamente a quello che loro immaginano, il bimbo è piccolissimo, poco più di un anno e mezzo, ma ha urgente bisogno di incontrare due genitori affidatari. Giorgia e Simona ci pensano solo un attimo poi decidono di tentare. Si affidano alla psicologa e all’assistente sociale responsabili del progetto. «Sono state bravissime e ci hanno capire quello che andava fatto».
Loro si impegnano al massimo e le cose vanno così bene che quel bambino, che chiameremo Marco, dopo cinque anni è ancora con loro. Non solo, quando al termine del periodo d’affido vengono chiamati dal giudice, perché per quel piccolo si apre la strada dell’adozione, capiscono che è indispensabile fare un passo in più. E Marco, dopo essere stato figlio nel cuore e nelle attenzioni, diventa figlio anche per la legge. Un passaggio scontato? No, un lungo tragitto insieme. Loro a scoprire il senso dell’essere genitori di un figlio non concepito biologicamente. Lui, il piccolo, che li considera suoi genitori, ma che di tanto in tanto pensa all’altra mamma e all’altro papà, quelli che dopo l’adozione non ha più potuto incontrare e che non basta una sentenza a cancellare: «Perché non posso vederli?», chiede. Giorgia e Simone sono consapevoli che il problema vada affrontato con trasparenza e franchezza, senza negare nulla. Ma sanno anche che la risposta debba essere rapportata all’età.
Passa il tempo, arrivano altre richieste dai Servizi sociali. «Ci hanno chiesto di ospitare per circa un mese un bambino di pochi giorni, un’altra esperienza splendida». Trascorso il tempo stabilito il neonato viene affidato a un’altra famiglia “ponte” per essere traghettato verso l’adozione. E infatti succede proprio così. A marzo dello scorso anno arriva un altro bambino, 2 anni e tre mesi, che chiameremo Kevin. «Lui è tuttora con noi. Abbiamo fatto un progetto annuale, per vedere come si mettevano le cose ed eventualmente estendere il periodo. Anche in questo caso, l’affido è diverso dai precedenti. Kevin vede regolarmente i genitori insieme all’educatrice». Anche Giorgia e Simone, una volta la settimana, possono incontrare questa coppia. Il rapporto è buono, c’è collaborazione. È una famiglia che si affianca a un’altra in difficoltà e tende la mano. I genitori naturali sono contenti di vederlo sorridente e lo percepiscono sereno. Sanno che per lui questo percorso, per quanto complesso, può essere un contributo importante nella sua educazione.
In realtà Giorgia e Simone – che fanno parte dell’Anfaa (Associazione famiglie adottive e affidatarie) – non conoscono nel dettaglio quale sia la fragilità dei genitori di Kevin. Le educatrici hanno parlato in generale di problemi educativi e loro hanno imparato a non chiedere troppo. Sia per non mettere in difficoltà le operatrici, sia perché hanno capito che non serve. E Marco come ha accolto Kevin? «La sua reazione è stata bellissima, fa tante domande e si mostra molto contento. Con lui siamo stati chiari fin dall’inizio. Gli abbiamo subito raccontato che si tratta di un fratellino che ci accompagnerà per un certo periodo, poi a un certo punto se ne andrà. Non ci sono state difficoltà. Di fatto è stato lui ad accoglierlo in casa». In alcuni periodi la curiosità si fa più insistente ma solo perché esistono difficoltà che la sua mente di bambino non riesce a risolvere. Nel periodo natalizio, per esempio, chiedeva con insistenza di informare Babbo Natale della presenza di Kevin: «Dovrà portare i regali anche per lui. Se non gli diciamo nulla, come potrà fare a scoprire che qui ci sono due bambini?».
Momenti di tenerezza che contribuiscono a rendere meno pesante la routine della giornata di due genitori affidatari per vocazione. «Cosa ci sentiamo di dire a un’altra coppia che medita di aprirsi all’affido? Che l’accoglienza è un servizio impegnativo che non è obbligatoriamente nelle corde di tutte le persone. Per qualcuno potrebbe non essere semplice. Certo, nel momento in cui c’è la forza della coppia e la consapevolezza che lo sforzo viene fatto per il bene del bambino e di una famiglia fragile, alla fine le risorse interiori si trovano». E sulle modalità più opportune di gestire situazioni sempre delicate, aggiungono: «Bisogna sempre entrare nelle situazioni in modo leggero, mostrarsi accoglienti con la realtà che c’è dall’altra parte e che spesso è complicata». Un attimo di silenzio e Giorgia prosegue: «Sì, la coesione della coppia è fondamentale. Aprire la porta di casa a un bambino in difficoltà e alla sua famiglia non è una cosa facile, ma certamente è una cosa bella». C’è un segreto per riuscirci? «Avere l’umiltà di identificare il nostro punto debole e trasformarlo nel nostro punto forte». E poi stabilire un buon rapporto con i servizi sociali, avere la disponibilità a raccontarsi e a chiedere aiuto. «Noi crediamo molto in questo sistema di sostegno reciproco che diventa una rete importante per tutti».
E come è cambiata la vostra coppia con l’affido? «Siamo molto cresciuti, sono i bambini stessi che ci hanno aiutato a crescere. Per stare bene con loro abbiamo capito che sarebbe stato importante curare il nostro rapporto, conoscerci sempre meglio, comprendere le responsabilità a cui siamo chiamati. Ora possiamo dire di essere una donna e un uomo più maturi, di essere diventati adulti. Aprirsi all’affido vuol dire costruire una famiglia più ampia e con qualche responsabilità in più rispetto a un nucleo familiare tradizionale. Ma è una bella sfida, ne vale la pena».
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