il legislatore vuole separare le carriere solo per dare attuazione al principio del giusto processo

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Pubblichiamo alcuni passaggi della relazione letta venerdì dal presidente della Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio della Corte dei Conti, Tommaso Miele, all’inaugurazione dell’anno giudiziario.

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L’annuale cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario è l’occasione per un momento di riflessione sull’andamento della giustizia erariale nell’anno appena trascorso e sulle sue prospettive per l’anno giudiziario che oggi dichiareremo aperto. Il ruolo di garanzia attribuito alla Corte dei conti dalla Costituzione è posto a tutela della legalità e del buon andamento della Pubblica amministrazione, nonché a presidio del pubblico erario e della buona amministrazione nell’interesse esclusivo del Paese e dei cittadini. Nell’esercizio delle sue attribuzioni di controllo e giurisdizionali la Corte dei conti costituisce un presidio di legalità, oltre che un presidio di democrazia, in considerazione del fatto che la stessa agisce nell’esclusivo interesse generale, e segnatamente nell’interesse dei contribuenti che hanno il diritto di esigere che le risorse da essi versate allo Stato siano impiegate secondo canoni di efficienza, di efficacia, di economicità e nel rispetto delle leggi, e soprattutto con la massima diligenza possibile.

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(…) Per il buon funzionamento delle istituzioni è auspicabile che – come ha scritto un noto costituzionalista – “(..) ogni cosa torni al suo posto”, e il posto non può essere che quello previsto dalla Costituzione. Se la dialettica tra istituzioni è per molti aspetti fisiologica, la bussola per l’ordinato svolgimento dei rapporti tra esse non può che essere, infatti, la Costituzione.

Fra queste riforme assume particolare rilievo la riforma della giustizia.

Da anni il nostro Paese vive una crisi della giustizia che si riflette nella vita sociale, nella politica e nell’economia, sulla tutela dei diritti e delle garanzie.

L’attuale contrapposizione fra politica e magistratura non giova al Paese, alle forze politiche, non giova alla stessa magistratura, che deve recuperare credibilità e prestigio.

Occorre tornare alla Costituzione, occorre – come ho avuto modo di dire in precedenti occasioni – “ricostituzionalizzare la Giustizia”, avendo ben presente quanto previsto dall’art. 101 Cost., secondo cui “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Ciò sta a significare, da un lato, che il giudice non è assoggettato ad alcun altro potere, essendo in un Paese democratico la magistratura autonoma ed indipendente da ogni altro potere, e dall’altro, che non può e non deve diventare egli stesso legislatore, in quanto in un Paese democratico – come ho avuto modo di anticipare – la legge la fa il Parlamento e il giudice deve limitarsi ad applicarla ( art. 101 Cost.).

Ed è bene sottolineare che “(..) la preminenza del ruolo del Parlamento e la soggezione del giudice alla legge, ai sensi dell’articolo 101 della Costituzione, lungi dal descrivere la prevaricazione di un potere su un altro, sono il segno distintivo della democraticità del nostro sistema e un postulato diretto del principio della sovranità popolare”.

E sempre con riferimento alla Giustizia occorre guardare con fiducia e senza essere prevenuti a quelle riforme, attualmente all’esame del Parlamento, volte a conseguire e ad affermare quel principio del giusto processo previsto dall’articolo 111 della Costituzione, fondato sulla terzietà del giudice, e che riconosce il diritto del cittadino ad avere un giudice terzo, imparziale ed equidistante fra le parti. Come pure bisogna guardare con fiducia a quelle riforme volte a riaffermare, in generale, una effettiva tutela dei diritti e delle garanzie del cittadino, fra cui la tutela della riservatezza e della dignità della persona rispetto ad un corretto uso dello strumento delle intercettazioni, e ad un corretto esercizio della libertà di stampa, consapevoli e rispettosi del principio di non colpevolezza sancito dall’articolo 27 della nostra Carta costituzionale. Anche nei rapporti con la stampa occorre etica e massimo rispetto della dignità della persona, evitando che la legittima diffusione di una notizia diventi, in taluni casi, una specie di pena anticipata.

È bene che si chiuda una stagione in cui la cultura del giustizialismo e la giustizia intesa come vendetta, se non addirittura come strumento di contrapposizione politica, hanno, assai spesso, compresso le garanzie e i diritti dei cittadini, ovvero, in taluni, casi, impedito o contrastato le legittime scelte operate dal legislatore. Se una norma presenta dubbi di contrasto con la Carta costituzionale o con la normativa europea vi sono gli strumenti previsti dall’ordinamento per superare ogni possibile dubbio o contrasto. Ben vengano, quindi, riforme volte a riaffermare quei diritti, quelle garanzie e quelle libertà tutelati nella nostra Costituzione e a riaffermare la cultura del garantismo, il pieno rispetto dei diritti di libertà del cittadino, la dignità della persona, riuscendo a coniugare difesa sociale e tutela dei diritti e delle garanzie.

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Per questo, come ho detto anche in altre occasioni, e non mi stancherò mai di dirlo, la Giustizia deve essere una giustizia rapida, efficiente, e soprattutto deve essere una Giustizia giusta, umana, rispettosa dei diritti e della dignità del cittadino, finalizzata alla affermazione della Giustizia e all’accertamento della verità e non al giustizialismo e alla vendetta.

Noi giudici soprattutto dobbiamo avere piena consapevolezza degli effetti delle nostre decisioni, dobbiamo avere consapevolezza del fatto che esse incidono sulla vita delle persone, sulle loro famiglie, sulla loro dignità, sulle loro relazioni sociali.

Occorre ristabilire un clima più sereno e più equilibrato nell’amministrazione della giustizia, improntato ad un forte rapporto fra Etica e Giustizia.

Al riguardo non può negarsi che negli anni ci sono stati sconfinamenti fra organi e istituzioni nell’esercizio delle rispettive funzioni. Oggi è più che mai necessario che si ristabiliscano i ruoli che la Costituzione assegna a ciascun organo e a ciascuna istituzione, e che si ristabilisca un corretto rapporto fra di essi, in cui ciascuno faccia solo, e soltanto, ciò che deve fare nel solo perseguimento dell’interesse pubblico.

Un corretto rapporto fra Etica e Giustizia vuole che la “funzione” non diventi mai “potere”. L’esercizio della funzione giurisdizionale o di controllo ( come di ogni altra funzione, anche amministrativa) non deve mai diventare “potere”. Essa diventa “potere” quando se ne abusa e la si deforma, la si indirizza a fini diversi da quelli previsti dalla Costituzione e dalla legge.

La Giustizia deve essere una giustizia umana. Una giustizia che sappia fare applicazione nelle aule di giustizia di quei sacri principi costituzionali che tutti noi abbiamo studiato e che soprattutto noi giudici dobbiamo assolutamente custodire. La giustizia non deve essere vendetta e deve essere soprattutto umana.

Una giustizia giusta va declinata con il diritto del cittadino ad essere giudicato da un giudice terzo, un giudice sereno, equilibrato, che ispira fiducia e che non abbia altre finalità nell’esercizio della sua funzione che quella dell’accertamento della verità e della giustizia. E soprattutto che abbia consapevolezza del fatto che per il convenuto già l’essere sottoposto ad un processo costituisce di per sé una pena. Un giudizio troppo lungo diventa un anticipo di pena, anche se l’imputato, o il convenuto nel caso del nostro giudizio, non è ancora stato condannato.

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Per questo il giudicare non deve mai diventare “mestiere”, abitudine, fredda applicazione della legge, come se fosse una mera elaborazione di dati in un computer: il giudice deve essere umano, si deve sempre, e ogni volta, far carico del caso specifico e del fatto che la questione su cui è chiamato a giudicare, anche se per lui è abitudinaria, assume per l’imputato, o per le parti nel giudizio civile, o per il convenuto nel giudizio innanzi alla Corte dei conti, una valenza “particolare”, una importanza e una rilevanza vitale, nel senso etimologico della parola, nel senso che può cambiargli la vita.

Il giudice non deve dimenticare che dietro le carte di un processo, dietro ad un fascicolo pieno di carte, ci sono persone – e famiglie – che soffrono “la pena del processo”, soprattutto se innocenti, persone a cui vanno date risposte in tempi ragionevoli, in tempi quanto più possibile brevi. Il tempo che scorre è già una condanna, specie se già il solo fatto di essere sottoposti ad un processo viene comunque strumentalizzato, attraverso una micidiale macchina del fango, sui media e sui social network.

Il giudice deve accostarsi con umiltà alle responsabilità del suo servizio, e deve sapere che ogni suo giudizio, anche il più convinto e meditato, è solo un tentativo di accertare una verità che resta pur sempre, ed in ogni caso, relativa.



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