Non solo Islam, velo è presente in cristianesimo e ebraismo

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La questione del velo è un tema “sempre verde” nelle dinamiche che caratterizzano la storia delle religioni, su tutte, quelle che vengono ricordate come “Culture del velo“: l’ebraismo, l’islam e il cristianesimo.

Nel discorso pubblico il velo, in ogni sua tipologia e forma, viene direttamente associato alla religione islamica, in particolare alla figura della donna musulmana, privata della sua libertà di pensiero e d’azione. Ma al contrario di quello che si è portati a pensare, come conseguenza del flusso d’immagini che i media mostrano ogni giorno, il velo ha radici molto più antiche e lontane nel tempo che devono essere studiate e comprese per non cadere in errore.

L’ebraismo e il cristianesimo

La religione ebraica è la più antica delle tre prese in analisi. All’interno della Tōrāh, testo sacro ebraico, si trovano riferimenti a modalità d’uso dettagliate e circoscritte nelle quali risulta doveroso indossare il velo.

In primo luogo il testo rimanda alla più comune accezione del velo come semplice copricapo, detto Za’if. L’utilizzo di esso era richiesto soprattutto alla parte di comunità femminile, ma, come si vedrà di seguito, anche gli uomini venivano chiamati ad indossarlo.

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Per la donna l’utilizzo del velo risponde alla necessità di mostrare la caratteristica della “modestia”, letteralmente “tzniut“. Dunque, coprire, mascherare e proteggere la donna da sguardi di uomini esterni al nucleo familiare, era lo scopo di quel tessuto posto sulla testa. All’uomo ebreo è, invece, richiesto di velarsi solo in determinate occasioni, come ad esempio nei momenti di lutto o di malattia.

In linea generale, la decisione di indossare il velo trovava ragion d’essere nel voler dimostrare un senso di “timore” nei confronti della divinità, e quindi diveniva necessario vestirlo nei momenti più solenni, come quelli della preghiera.

Ulteriori riferimenti all’utilizzo del copricapo si inseriscono nella narrazione di personalità ebraiche centrali, una su tutte quella di Mosè. Il condottiero della liberazione ebraica dall’Egitto viene spesso descritto con indosso un velo. In questo caso lo scopo del suo utilizzo doveva essere quello di mostrare reverenza, modestia e rispetto nei confronti di Dio.

Nel Nuovo Testamento la velatura è invece esclusività delle donne. I cristiani ritenevano necessario che le donne indossassero un velo a protezione di una sfera privata che doveva rimanere nella piena riservatezza. Il mondo cristiano riprende dalla tradizione ebraica dell’Antico Testamento svariate indicazioni per l’utilizzo del velo, sovrapponendo così le pratiche religiose.

In alcuni passi della Bibbia si riscontra una forte tendenza a sottolineare come tutte le donne che non indossassero un copricapo fossero da considerare di “facili costumi”. Per San Paolo le donne avevano il dovere di indossare un velo, poiché era di quest’ultime il compito di salvaguardare l’ordine della società e il decoro pubblico, i quali potevano essere messi a rischio dalla visione di una donna non velata.

L’idea della donna come diretta erede di Eva, e di conseguenza colpevole di comportamenti poco idonei e non corretti, ricorre anche nelle parole di autori latini come Tertulliano o San Giovanni Crisostomo. Il corpo femminile doveva rimanere al “sicuro”, coperto, poiché forte minaccia per l’integrità dell’universo maschile.

L’Islam e il Corano

La religione islamica viene molto frequentemente imputata di far abuso dell’utilizzo del velo, ma è proprio così?

Per alcuni studiosi l’utilizzo del velo nell’islam sarebbe il risultato di un’imitazione di consuetudini e tradizioni di altri popoli da parte delle donne musulmane. Il velo non è, infatti, elemento direttamente connesso alla fede islamica, anzi, si presume che venisse utilizzato in origine come una sorta di protezione per gli agenti atmosferici, ad esempio i forti venti del deserto. Quindi, un’origine del tutto profana.

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Il copricapo islamico vive ancora oggi in una cornice di strumentalizzazione legata ad una lettura mediatica prettamente occidentale, secondo la quale all’interno del Corano verrebbe riportato l’obbligo per le donne di indossare il velo. Nel testo sacro per i musulmani il termine più utilizzato per riferirsi alla velatura è “Hijab“. L’espressione ha varie connotazioni: da quella di semplice copricapo, alla rappresentazione di cortine, tende. La costrizione e l’obbligo di cui tanto sentiamo parlare, soprattutto a livello politico, non trovano riscontro nelle Scritture, le quali vengono distorte e molto spesso adattate all’utilità di un certo pensiero politico.

Come per la religione ebraica, ugualmente l’islam prevede l’uso di copricapo anche per gli uomini, e le fonti ci parlano del suo utilizzo anche da parte del profeta Muhammad.

Culture del velo

I primi riferimenti storici riguardo l’avvio della pratica di velatura sono riscontrabili nei vissuti di civiltà mesopotamiche attorno al 3000 a.C..

L’ebraismo, il cristianesimo e l’islam vedono, quindi, il velo come uno dei tanti elementi condivisi. Come abbiamo visto le pratiche della velatura coincidono di molto nelle tradizioni di queste religioni, riscontrando fattori di applicazione comune.

Tra le “religioni rivelate” l’islam è quella nella quale permane fortemente l’utilizzo delle più disparate tipologie di velo: dall’hijab, già ricordato, al niqab, dallo chador al conosciutissimo e tanto discusso burqa.

Ciò però non deve far dimenticare l’utilizzo del velo nella lunga tradizione dell’ebraismo e del cristianesimo. Sempre più spesso siamo portati a pensare al velo non come un elemento facente parte dell’antica cultura tramandata dal mondo delle religioni, ma come strumento di contrasto e lotta, a favore o contro una certa fede.

La questione del velo non può essere semplificata ad un’unica lente di analisi, ma occorre sottolineare e mantenere vive le molteplici tradizioni culturali, religiose e storiche che ruotano attorno ad essa. Su tutto, sicuramente, si deve rispettare l’esperienza individuale, soprattutto femminile, la quale viene sfruttata dalle varie controparti per scontrarsi, e sempre meno di frequente come punto di partenza per il dialogo e l’inclusione.

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Sophia Spinelli



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