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Il negoziato in corso tra Trump e Putin sulla guerra in Ucraina rappresenta la prova inoppugnabile del definitivo tramonto di quell’ordine internazionale che ha consentito all’Occidente di esercitare sul pianeta una egemonia culturale ed economica fondata sull’inscindibilità tra democrazia e mercato.
Si tratta di una egemonia che ha saputo alimentare nel cittadino l’intima convinzione di una superiorità che risultava delittuoso contestare in quanto prosperità e libertà godute in Occidente non erano riscontrabili in nessun altro angolo del pianeta. In verità, risulta innegabile che la democrazia capitalistica abbia rappresentato per decenni il sistema in grado di consentire al cittadino di esprimere il proprio talento partendo anche dalle retrovie di una società fortemente stratificata.
La forza dell’Occidente, in fondo, era data da questa capacità di offrire a chiunque una opportunità all’interno di un perimetro di regole chiamato “mercato” sul quale incombeva l’occhio vigile dello Stato. Il fascino della democrazia era dato, soprattutto, da questa attitudine a coniugare “individuo e società” consentendo al primo di esplicare le libertà democratiche nel rispetto di chiunque non fosse in grado di farlo. In quest’ottica, il ruolo dello Stato non era soltanto quello eminentemente istituzionale di imporre il rispetto delle leggi ma era, altresì, quello di tutelare le aree deboli della società attraverso la creazione di dispositivi redistribuivi che ogni cittadino riteneva legittimi.
Questa narrazione, dai tratti mitologici, tende, tuttavia, a trascurare alcune verità che ancora oggi tendiamo surrettiziamente ad ignorare. Su tutte, il sempiterno rapporto di vassallaggio imposto ai paesi poveri nonché l’assenza sui mercati mondiali, fino alla fine degli anni ’80, di quelle nazioni che usiamo definire “Brics” (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). Se considerassimo la reale portata di questi due fattori planetari, sarebbe facile rendersi conto che la crisi dell’Occidente è stata determinata dalla miopia delle sue classi dirigenti che ne hanno colpevolmente sottovalutato l’impatto, sia sul piano culturale che economico. Oggi l’Europa è incline a scorgere nemici ovunque: l’“invasione” dei profughi, il “pericolo” dell’Islam, della Russia, della Cina, del mondo arabo e, ora, perfino dello storico alleato americano. Falangi di nemici che sembrerebbero marciare divisi per colpire uniti. Lontani da ogni sorta di lettura complottista della storia, occorrerebbe, di contro, ammettere che non esistono congiure universali che abbiano ordito il declino occidentale.
La verità è semplicemente un’altra: non abbiamo saputo leggere e interpretare il cambiamento e ci siamo baloccati nell’illusione che la democrazia capitalistica rappresentasse il definitivo approdo della storia. Così non è stato. A spiegarlo bene è stato, qualche anno fa, un economista di Harvard, Dani Rodrik, secondo il quale nei sistemi politici contemporanei esisterebbe una incompatibilità strutturale tra democrazia, stato nazionale e globalizzazione economica. Si tratta degli elementi di cui si compone il celebre “trilemma di Rodrik”. Se vogliamo, l’ondata populista che ha travolto l’Occidente sembra confermare le tesi di Rodrik che vertono sulla incapacità degli stati nazionali di governare le problematiche imposte dall’economia globale. Non solo. Non si può non ammettere che la crisi della democrazia nasce dal bisogno di sicurezza avvertito dal cittadino a causa della globalizzazione che ha scatenato gli “spiriti animali” del capitalismo e, contestualmente, ha consentito ai poveri del pianeta di bussare alle porte delle ricche società occidentali, sempre più impaurite dall’imponente transumanza di orde di poveri. Pertanto, il dilemma che si pone alle classi dirigenti resta quello a suo tempo sollevato da Norberto Bobbio prima e da Robert Dahl dopo: risulta ancora realizzabile un equilibrio tra Stato, democrazia e mercato? Questo è il vera tema su cui dovremmo riflettere rinunciando, per una volta, a costruire pretestuosamente un nemico per evitare di ammettere le nostre colpe.
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