«Restare in silenzio di fronte alla sofferenza significa accettarla»

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«Il popolo iraniano è in sollevazione nel magnifico movimento Donna Vita Libertà». A portare in Italia le istanze della società civile iraniana l’attivista e scrittrice Narges Mohammadi, premio Nobel per la pace 2023 «per la sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran e la sua battaglia per promuovere i diritti umani e la libertà per tutti».

Mohammadi è stata arrestata dodici volte, la prima nel 1998, e ha ricevuto condanne a decenni di reclusione per una vita dedicata a combattere il regime iraniano, dentro e fuori dal carcere. Ora è in detenzione domiciliare per cure mediche. L’attivista è intervenuta al Comitato permanente Diritti umani della Commissione affari esteri della Camera dei deputati, presieduto dalla deputata del Partito democratico Laura Boldrini. Durante l’audizione ha definito il governo iraniano «un regime irriformabile e inefficace», «una tirannia», «simbolo dell’apartheid di genere», che «ha perso la sua legittimità davanti al popolo iraniano» e, per questo, spiega a Domani, «l’unico modo in cui il regime risponde alle critiche, alle proteste e al dissenso è la repressione».

La pena di morte è uno degli strumenti principali della repressione degli ayatollah. Il 2024 ha registrato un picco delle esecuzioni capitali: secondo le Nazioni unite, sono state 901. Moltissimi erano attivisti e dissidenti politici. «Chiediamo di non dimenticare chi all’interno delle carceri continua a protestare contro la pena di morte, da mesi, con scioperi della fame e diverse altre forme di protesta», ha detto Mohammadi ai parlamentari e alle parlamentari italiane. Altre tre donne rischiano la stessa sorte: Sharife Mohammadi, Varisha Moradi e Pakhshan Azizi sono state condannate a morte. Una situazione «molto preoccupante», dice la scrittrice, e «una forma di vendetta nei confronti del movimento Donna Vita Libertà», nato dopo l’uccisione di Mahsa Jina Amini dopo l’arresto da parte della polizia morale.

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Qual è l’eredità del movimento Donna Vita Libertà?

Ha dimostrato che il mondo vede la lotta delle donne iraniane e ascolta le loro voci. È stato anche un messaggio importante al regime.

Cosa significa essere donna e attivista per i diritti umani in Iran oggi?

La lotta per i diritti delle donne è un viaggio lungo e difficile. L’8 marzo 1979, Giornata Internazionale della Donna, migliaia di donne scesero in piazza per protestare contro l’obbligo del velo. Nel 2022, invece, la società è insorta con il movimento “Donna, Vita, Libertà”.

In questi anni la lotta contro il regime ha incontrato enormi ostacoli e resistenze da parte delle tradizioni, delle norme sociali, degli interessi consolidati e persino della religione. Le donne iraniane hanno superato questi ostacoli. Non si sono tirate indietro, non sono tornate a casa, non si sono arrese. Sono andate in prigione, hanno subito torture e hanno continuato a far sentire la loro voce contro il dispotismo religioso anche dall’interno delle carceri. Un risultato enorme, non solo per le donne in Iran, ma per quelle di tutto il mondo e per l’intera società iraniana.

Lei stessa ha pagato un caro prezzo.

Sono stata arrestata più volte, sottoposta a isolamento, tortura psicologica, percosse, molestie, processi e detenzione. Il mio attivismo è iniziato durante gli anni universitari e il primo arresto è avvenuto durante il movimento studentesco. La Repubblica Islamica viola i diritti umani e delle donne. Per sua stessa natura è priva della capacità di garantire libertà, democrazia ed eguaglianza e, negli ultimi 46 anni, ha dimostrato più volte di essere incapace di riformarsi.

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Lottiamo per la libertà di espressione e di pensiero, che il regime sopprime con ferocia. In questo contesto, è inevitabile che qualcuno come me, impegnato nella difesa dei diritti umani, delle donne, contro la tortura bianca, l’isolamento e la pena di morte subisca una repressione costante da parte del regime.

Come reagisce la società di fronte alla reclusione dei corpi e alla repressione?

Credo che la vita dietro le oscure e fredde mura della prigione scorra con intensità, intrecciata con l’elemento della “resistenza”. Quando la resistenza, nata da una volontà umana incrollabile, è forte, la vita, in tutte le sue sfaccettature, brilla anche all’interno delle mura del carcere.

Ho visto la crescita, la vitalità e la resilienza di donne condannate alle pene più dure, dalla pena di morte a lunghe detenzioni, con gravi malattie croniche, comprese donne anziane. Bisogna riconoscere che un prigioniero è un essere umano e ogni essere umano cerca di sopravvivere in modi diversi. Cantare, danzare, tagliare o acconciare i capelli, indossare vestiti colorati, ridere e trovare gioia: tutti questi sono modi per mantenere vivo il senso della vita, anche tra i detenuti comuni.

Nelle carceri politiche e ideologiche dell’Iran, questi atti diventano parte della resistenza, sfidando le politiche delle autorità carcerarie. Più i prigionieri portano avanti la loro lotta, specialmente attraverso la solidarietà e la fratellanza, più forte diventa il loro senso della vita e della speranza. Alcuni pagano un prezzo altissimo.

Il governo non tollera una tale resilienza e cerca di reprimerla. Nel 2020, sono stata processata e condannata per aver organizzato un’assemblea nella sezione femminile della prigione di Evin.

I media italiani hanno messo in luce le condizioni di detenzione e le violazioni nel carcere di Evin quando la giornalista Cecilia Sala è stata arrestata dalle autorità iraniane. Cosa accade dietro le mura di questa prigione?

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Quando si parla della prigione di Evin, è essenziale menzionare le sezioni di sicurezza (209, 2-A, 240 e 241), dove i detenuti vengono tenuti in isolamento. Ne ho parlato nel mio libro “White Torture”, Tortura bianca. 

Le condizioni non sono uguali in tutta la prigione di Evin. Le celle di isolamento nelle sezioni di sicurezza sono luoghi di tortura psicologica, emotiva e persino fisica, che risultano spaventose.

Le prigioni delle città più piccole sono molto peggiori di Evin. Ho subito la detenzione a Zanjan (due volte) e nella prigione di Qarchak. Qui le condizioni sono disumane ed estremamente difficili da sopportare.

La notizia dell’arresto, dell’isolamento e del successivo rilascio della giornalista italiana Cecilia Sala ha evidenziato ancora una volta la realtà che giornalisti e professionisti dei media in Iran sono costantemente a rischio di detenzione, pressioni, carcere e tortura. Così il regime autoritario religioso mette in pericolo la libertà di espressione.

Dalla morte di Amini alla politica degli ostaggi di cittadini occidentali, c’è una forte attenzione mediatica verso l’Iran. 

In un mondo in cui tutto è interconnesso, non possiamo più parlare del sé senza riconoscere l’altro, né possiamo affermare di essere immuni dalle lotte altrui, per quanto lontane possano sembrare. La violazione dei diritti umani, sia contro persone private delle loro libertà in qualsiasi parte del mondo, sia contro donne private dei loro diritti in qualsiasi terra, non rimane confinata entro i confini nazionali. L’ingiustizia ovunque è una minaccia.

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I governi oppressivi e non democratici che violano i diritti umani generano povertà, sofferenza, negazione dell’istruzione e dell’occupazione, violenza, discriminazione e guerra. In un mondo globalizzato, le loro conseguenze si riversano ovunque, colpendo tutti noi.

Come reagire quindi?

La risposta non è costruire muri o isolarci. Le realtà del nostro tempo richiedono un approccio diverso, basato sulla solidarietà e sulla responsabilità condivisa.

Come scrisse Saadi, il grande poeta persiano: «Tutti i figli di Adamo formano un unico corpo / Nella loro creazione sono della stessa essenza / Se una parte è afflitta dal dolore / Le altre non possono restare in pace».

Restare in silenzio di fronte alla sofferenza significa accettarla. Dobbiamo restare uniti e lavorare instancabilmente per difendere la democrazia, i diritti umani e la pace per tutti.
 

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